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Torcetti


Questi torcetti non sono soltanto un dolce sperduto...rappresentano un sapore che ho inseguito per anni, una specie di sfuggente madeleine proustiana che, di torcetto in torcetto non riuscivo mai a riassaporare. Il biscotto in sé non ha bisogno di molte presentazioni: è il classico prodotto da forno che nell’800 salta dalla panetteria alla più raffinata pasticceria secca. Nel passaggio si modifica un po’ il nome, da “torchietti”, cioè attorcigliati, a torcetti, la ricetta base si arricchisce ed il torcetto, da dolce tipico per i bambini passa a ingentilire (con panna-la fioca- il caffè d’orzo e lo zabaione) i fine pasto delle ricorrenze familiari più importanti come i battesimi, le comunioni e i matrimoni.
Sembra che il luogo di nascita dei torcetti sia la zona di Lanzo (TO), dove per altro si dice siano nati anche i grissini, che sono i loro cugini più prossimi (solo salati e stecchiti). In realtà però oggi si fanno torcetti un po’ in tutto il Piemonte, e forse è il biscotto più rappresentativo della regione, ma a ben guardare i torcetti ci sono anche in valle d’Aosta (Saint Vincent). Insomma dato che ogni campanile piemontese e non, ha il suo torcetto, ogni paesello ha la sua variante, la sua ricetta e il suo biscotto (completamente diverso dal borgo a valle, o a monte, distante appena due chilometri).

Ora, in tutto questo fiorire di dolcetti attorcigliati, io non volevo né la ricetta perfetta, né quella più antica, né quella più tradizionale. No, io cercavo il sapore dei torcetti che faceva il panettiere del mio paesino quando ero piccola. Questo panettiere ha chiuso la sua bottega quando io avevo circa 10 anni. Da allora ogni torcetto mi è sembrato un pallido tentativo di avvicinamento a quelle brunite goccioline dolci che divoravo con gusto da bambina. Dopo aver salvato un centinaio di ricette di torcetti in un file appositamente destinato a questa ricerca del graal-torcetto, dopo averle messe in rigoroso ordine cronologico (dal "Confetturiere Piemontese" del 1790 a Montersino), e dopo aver immaginato una vita meravigliosa in cui, vincendo Masterchef si può andare in giro a dar voti ai torcetti, ho preso coscienza della realtà del paesello montano della mia infanzia e ho capito che al massimo la pasta del pane/grissini poteva essere stata arricchita con niente di più complesso che un poco di burro. Infatti alla fine eccoli, questi sono i torcetti di una piccola Betulla bambina: sottili sottili, caramellati e bruni. Buonissimi, naturalmente nella loro croccante semplicità.

“Torcetti”
Ingredienti:
250 g farina 00 (+ quella per la spianatoia)
100 g burro (a temperatura ambiente)
40 g acqua
2 g di lievito di birra disidratato
un cucchiaino di miele di acacia o millefiori
un pizzico di sale
zucchero semolato q.b
acqua

Procedimento:
Sciogliere il lievito di birra nell’acqua appena tiepida con un cucchiaino di miele e farlo riposare per una decina di minuti per farlo attivare (quando sulla superficie apparirà una schiumetta). In una terrina capiente setacciare la farina, aggiungervi il sale e il burro a temperatura ambiente tagliato a piccoli dadini. In centro alla farina versare poco per volta la miscela di acqua e lievito, e cominciare ad impastare con una forchetta. Eventualmente trasferire l’impasto sulla spianatoia infarinata e concludere di impastare. Riporre la palla di impasto nella terrina infarinata, coprire con un canovaccio pulito e fare riposare per circa due ore in un angolo della cucina al riparo da correnti d’aria. Trascorso questo tempo sgonfiare la pasta lievitata trasferendola di nuovo sulla spianatoia infarinata e stendendola con un mattarello in una sfoglia spessa tra 5 mm e 1 cm (a seconda dello spessore che vorrete ottenere nei torcetti).
La sfoglia deve essere larga circa 10 cm e con un taglia pasta, o con un coltello affilato ricavare delle stricioline di pasta. Con le mani farne dei bastoncini, e allungandoli come si fa per i grissini stenderli fino a circa 15 cm di lunghezza. Avvicinare le estremità dando ai torcetti la classica forma a goccia. Trasferirli su una teglia ricoperta di carta da forno. Una volta esaurito l’impasto spennellare i torcetti con acqua tiepida e "tuffarli" in abbondante zucchero semolato in modo che siano ben ricoperti di zucchero da entrambi i lati. Posizionarli nuovamente sulla teglia e così farli riposare per almeno un’oretta, poi infornare in forno caldo (180°) per circa 15 minuti... o fino alla caramellizzazione della superficie del biscotto.



Cicerchiata


Il bello di essere una Betulla culinaria vivente nella blogosfera è che le mie radici possono vagare su e giù per le tavole del mondo senza preoccuparsi di gravosi e sfuggenti concetti come identità, confini e lesa maestà della tradizione. I piatti che qui vengono pubblicati non devono mai giustificarsi o raccontare la storia tenera e ridicola di migrazioni famigliari e spostamenti da un capo all’altro dello stivale, come invece a volte è accaduto a chi scrive dietro a questo nom de Plume.
I miei genitori sono entrambi abruzzesi, ma figli di emigranti che hanno cercato nel nord d’Italia una vita migliore e un lavoro, si sono incontrati per caso e fortuna in una notte trapunta di stelle, così sono io nata nel bel mezzo della Pianura Padana, a un passo dalle guglie del duomo. La vita milanese però non era molto adatta ad una piccola Betulla, così sono stata prontamente trasferita su un cucuzzolo delle Alpi Marittime, dove ho vissuto un’infanzia spensierata da selvatica creatura dei boschi. Per l’università mi sono trasferita a Torino, dove, per ora, vivo con la mia dolce metà, un roerino giramondo.
Quand’ero ragazzina tiravo fuori a fatica questa cantilena famigliare, e avrei barattato volentieri le mie contorte radici con uno di quei solidi alberi genealogici che attestano un nucleo famigliare dal 1600 a oggi stanziale non nello stesso comune, ma addirittura nella stessa casa. Mi dava fastidio sentirmi chiedere “ma tu non sei piemontese vero?” (forse per i capelli nerissimi, per l’abbondanza di olio extravergine in cucina, o per il cognome chiaramente meridionale?), “ma tu sei davvero di Milano?” (forse per l’accento montanaro, per il guardaroba poco fashion o per lo stile di vita estremamente provinciale) o ancora “hai mai vissuto in Abruzzo?” (forse per il vocabolario dialettale limitato e desueto, risalente ai tempi della migrazione dei miei nonni’). Sempre un po’ fuori luogo, mai perfettamente aderente a una intera vita piemontese, alla mia seconda vita milanese, o alle lontane origini pescaresi.
Con il tempo ho smesso di crucciarmene, anzi, ho capito che non appartenere completamente a qualcosa significa poter far parte di tanti mondi, di tante cucine, di tante tradizioni, significa ricchezza, e significa libertà di costruire la sfumatura, come nel più bello dei mosaici, fatto di infinite tesserine differenti e colorate.
Oggi finalmente sono orgogliosa delle mie radici sradicate, anche in cucina!

Non a caso ecco la ricetta della Cicerchiata, anch’essa un’adorabile sradicata: nata probabilmente in Umbria, si è largamente diffusa in Molise, nelle Marche e in Abruzzo (dove è ora è riconosciuta come un Prodotto Agroalimentare Tradizionale del periodo natalizio o carnevalesco). Deve il suo nome alla cicerchia (Lathyrus sativus), umilissimo legume a cui assomiglia nella forma e nel colore (cicerchiata, significa letteralmente ammucchiata di cicerchie). Ha origini antiche che si confondono con quelle dei dolci mediterranei greci, turchi o persiani, esclusivamente a base di miele. Infine in Italia ha parenti illustri, gli Struffoli napoletani (di solito montati in forma conica, quasi come una monumentale croquembouche, oggi più spesso ridotti in un pirottino monoporzione), la Cirata e la Pignolata calabresi. Tutti questi “dolci parenti” hanno spesso quella benaugurate forma a ciambella, fatta senza uno stampo, ma semplicemente versando il composto a cucchiaiate su un tavolo di marmo. La Cicerchiata, da buona sradicata, è un dolce contraddittorio: semplice, quasi povero nell’esecuzione (pasta fritta con miele), ma straordinariamente ricco di gusto per gli ingredienti che può accogliere a seconda delle tradizioni che incontra e che la fanno propria (frutta secca, canditi, confetti, zuccherini, perline...).
La Cicerchiata non ha radici, ma ha tanta fantasia.
Buon Carnevale.
Betulla
“Cicerchiata”
Ingredienti:
400 g di farina 00
4 uova intere
2 cucchiai di olio extravergine di oliva (30 ml circa)
2 cucchiaini rasi di lievito vanigliato per dolci
un pizzico di sale
due gocce di essenza di limone (o la buccia grattugiata di mezzo limone bio)

olio di arachidi per friggere

lo stesso peso della pasta fritta -i ceci- in mandorle, nocciole e noci in proporzione variabile secondo i gusti (con queste dosi si ottengono circa 530 g di pasta fritta quindi occorrerà lo stesso peso di frutta secca)

600 g circa di miele di acacia o millefiori Mariangela Prunotto

confetti o palline argentate alimentari per decorare


Procedimento:
-Preparare una pasta morbida mescolando in una ciotola la farina setacciata con le uova, l’olio, il pizzico di sale, l’essenza di limone e i due cucchiaini di lievito vanigliato. Impastare bene, poi eventualmente trasferire la pasta su una spianatoia e completare a mano sino ad avere una palla di pasta omogenea. Dividere la pasta in quattro o cinque porzioni e passarle una per volta alla sfogliatrice per la pasta fatta in casa (lo spessore deve essere il più largo consentito dalla macchinetta). Una volta ottenute le sfoglie infarinarle, e procedere facendo con la sfogliatrice delle tagliatelle. Disporre queste tagliatelle (sempre ben infarinate) su un tagliere e con un coltello affilato realizzare dei quadrucci di pasta (di 1 cm massimo). Trasferire i quadretti su un tagliere ben infarinato e procedere così sino all’esaurimento delle sfoglie.
- scaldare l’olio di semi di arachidi in una pentola adatta e friggere poco per volta i quadretti di pasta che durante la cottura si gonfieranno e diventeranno tondi (come ceci o cicerchie, appunto). Quando i ceci di pasta avranno un colore dorato scolarli e farli asciugare bene su un vassoio coperto di carta assorbente. Procedere con pazienza sino all’esaurimento dei granelli di pasta.
-Fare riposare e raffreddare i ceci di pasta, che si induriranno un pochino. Nel frattempo tostare la frutta secca (o su una teglia in forno caldo 180° per 8/10 min, o in padella antiaderente riscaldata fino alla doratura della frutta).
-In una pentola capiente scaldare il miele che deve diventare liquido e trasparente.Volendo a questo punto di possono aggiungere aromi come scorzette di arancia o pezzettini di cannella. Quando la superficie si copre di una schiumetta marrone spegnere il fuoco, e rovesciare con delicatezza la pasta fritta. Mescolare con un cucchiaio di legno facendo in modo che i ceci di pasta siano tutti avvolti dal miele. Aggiungere la frutta secca, mescolare ancora dolcemente, poi fare riposare il tutto per una decina di minuti (fino a che il miele sarà un po’ rappreso).
-Su un vassoio coperto di carta antiaderente disporre il composto a cucchiaiate, dandogli la caratteristica forma a ciambella. Con la dose di questa ricetta di ottengono tre grosse cicerchiate (volendo procedere in due tempi i ceci di pasta cotta asciuttissimi si conservano circa 15 giorni in una scatola di latta ben chiusa). Infine decorare a piacimento con confetti colorati, mandorle intere e perline d’argento.
Ben chiusa in una scatola di latta per biscotti la Cicerchiata è un dolce di lunga durata (15/20 giorni senza perdere colpi, freschezza e fragranza).



Tartufini di cioccolato (e altri frammenti amorosi)

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Tartufini di cioccolato fondente con cuore di Marron Glacé
Confrontavo l’attesa trepidante di sfornare un dolce, o di assaggiare un laborioso manicaretto, dopo due ore di fatiche, con l’attesa amorosa (oggi è san Valentino). Dal cilindro delle mie gustose letture è saltato fuori Roland Barthes indagatore sopraffino dei tumulti del cuore (allego le sue parole, perchè cucina o sentimenti, sempre attesa è!). Secondo lui una materia deteriorabile come l’amore può essere decifrata e detta esclusivamente con una struttura frammentaria che ne eviti la banalizzazione. Secondo me il cioccolato, delicatissimo e onnipresente, si apprezza meglio con minuscole sbocconcellate golose: i tartufini. Frammenti amorosi, in entrambi i casi...

n.b: il punto n.6 è l’equivalente di quando si ha l’intenzione di fare una torta a tre piani decorata con ghiaccia e si finisce per servire un brownies a tocchetti, o si lascia perdere tutto e si va in pasticceria!

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Tartufini di cioccolato bianco con cuore di scorza d'arancia candita

"É dunque un innamorato che parla e che dice:

5. «Sono innamorato? - Sì, poiché sto aspettando ». L’altro, invece, non aspetta mai. Talvolta ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta.

(Nel transfert, si aspetta sempre – dal medico, dal professore, dall’analista. Ancor più evidentemente: se sto aspettando allo sportello d’una banca, o alla partenza d’un aereo, subito stabilisco un rapporto aggressivo con l’impiegato, con l’hostess, la cui indifferenza svela e irrita la mia sudditanza; si può così dire che, ove vi è attesa, vi è transfert: io dipendo da una persona che si fa mezzo e che impiega del tempo a darsi – come se si trattasse di far scemare il mio bisogno. Fare aspettare: prerogativa costante di qualsiasi potere, « passatempo millenario dell’umanità »).

6. Un mandarino era innamorato di una cortigiana. « Sarò vostra - disse lei, - solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello , nel mio giardino, sotto la mia finestra ». Ma alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n’andò."

L’attesa
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso

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Tartufini di cioccolato fondente

“Tartufini di cioccolato”

Ingredienti per i tartufini fondenti e per quelli al marron glacè:

-150 g di cioccolato fondente
-50 g di panna
2 marron glacé
rum
cacao amaro e zucchero a velo

Procedimento:
Mettere i 2 0 3 marron glacé in una piccola ciotola e irrorare di buon rum.Tritare il cioccolato su un tagliere e metterlo in una casseruola adatta al bagnomaria. Fare fondere il cioccolato a bagmomaria mescolandolo lentamente. Lasciare raffreddare togliendo la casseruola dall’acqua calda, e aggiungere al cioccolato fuso la panna fredda. Fare intiepidire il composto. Nel frattempo tagliare i marron glacè in pezzettini (saranno il cuore dei tartufini, quindi regolatevi voi per la grandezza, a seconda di quanto volete che si senta il sapore della castagna). Preparare anche due piatti piani, a uno coprirete il fondo di cacao amaro setacciato, all’altro di un misto di cacao amaro e zucchero a velo. Aiutandosi con due cucchiaini prelevate piccole porzioni del composto di cioccolato e panna cercando di dal loro la forma di una pallina. Appoggiarli delicatamente sul piatto con il cacao amaro. Quando avrete consumati circa metà del composto passate alla produzione di quelli con il cuore di marron glacè: appoggiare un pezzetto di castagna su uno dei cucchiaini che si userà per prelevare il cioccolato. Appoggiare il mucchietto di composto sul piatto con cacao e zucchero a velo. Non preoccuparsi se la forma di questi mucchietti non è molto armoniosa. Quando il composto sarà esaurito disporre alcuni pirottini su un vassoio, e procedere a riempirli dopo aver passato rapidamente i mucchietti di cioccolato tra le mani. Il calore dei palmi farà in modo che i tartufini prendano una forma più armoniosa e sferica. Eventualmente ripassarli nel cacao o nel cacao misto a zucchero a velo, e sistemarli nei pirottini.

Ingredienti per tartufini al cioccolato bianco all’arancia e cioccolato bianco, mandorla e cocco:
-150 g di cioccolato bianco
-50 g di panna
scorzette di arancia candita
mandorle pelate
cocco grattuggiato

Procedimento:
-Tritare il cioccolato su un tagliere e metterlo in una casseruola adatta al bagnomaria. Fare fondere completamente il cioccolato a bagnomaria mescolandolo lentamente. Lasciare raffreddare togliendo la casseruola dall’acqua calda, e aggiungere al cioccolato fuso la panna fredda. Fare intiepidire il composto. Nel frattempo tagliare le scorzette di arancia candita in cubetti di circa un centimetro di lato e preparare due piatti piani coprendo il fondo di uno con lo zucchero a velo, e l’altro con il cocco grattugiato. Aiutandosi con due cucchiaini appoggiare una scorzettaa su uno dei due cucchiaini e prelevare il cioccolato. Appoggiare il mucchietto di composto sul piatto con lo zucchero a velo. Procedere così per la metà del composto, poi utilizzare la stessa tecnica con le mandorle pelate appoggiandorle sul piatto con il cocco. . Quando il composto sarà esaurito disporre alcuni pirottini vuoti su un vassoio, e procedere a riempirli dopo aver passato rapidamente i mucchietti di cioccolato tra le mani. Il calore dei palmi farà in modo che i tartufini prendano una forma più armoniosa e sferica. Eventualmente ripassarli nello zucchero a velo o nel cocco prima di sistemarli definitivamente nei pirottini.

Fare riposare i tartufini in un luogo fresco e asciutto prima di servirli.
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Tartufini di cioccolato bianco, mandorle e noce di cocco


Arrosticini impanati al limone


L’idea (bellissima) di Alessandra ha fatto le capriole su nuvole di panna, cioccolata calda, croissant e bicerin. Così quella che doveva essere una semplice e vezzosa colazione d’inverno tra foodblogger torinesi è diventata in un bel progetto per crescere, leggere e cucinare insieme. Si parte da un libro di cucina (e non potrebbe essere altrimenti) originale e ambizioso: “La grammatica dei sapori” in cui l’autrice, Niki Segnit, ha tentato una sorta di classificazione a 360° dei sapori del cibo. L’impresa è titanica, ma, pur limitata dalla soggettività e dal rischio di di avvitarsi in un catalogo alla Bouvard e Pécuchet, il volume che ne deriva è una straordinaria guida per lettori e cuochi golosi. La particolarità di questa piccola bibbia rosa, è che capovolge la prospettiva dei libri di cucina: qui il soggetto non è il cibo e le ricette che spiegano come cucinarlo, bensì il sapore (di solito risultato finale del processo) e le componenti che lo determinano. Il sapore si divide in 16 grandi famiglie principali, ognuna delle quali, come nella specie umana, si complica in mille arzigogolati rivoli di matrimoni e parentele.
Abbiamo deciso di utilizzare queste 16 grandi famiglie come base del nostro progetto (ambizioso tanto quanto quello dell’autrice). Ogni mese su questi schermi affronteremo una delle famiglie di sapori. Ognuna di noi si occuperà nello specifico di un solo ingrediente appartenente a tale famiglia proponendo una ricetta basata sull’abbinamento che l’ha suggestionata di più. La realtà è più semplice della descrizione, e basta un esempio per spiegare che questo mese il tema sarà la Famiglia degli Agrumati, io ho scelto il Limone, e propongo una ricetta basata sull’abbinamento Agnello & Limone suggerito dall’autrice del libro.
Forse senza avere il testo sott’occhio il tutto può sembrare un poco complesso...la soluzione è doppia: o aggiungere un validissimo volume alla vostra personale collezione di cookbook (so che siete tentati, ma non voglio essere accusata delle vostre dilapidazioni libresche!!!), oppure leggere con grande attenzione le indicazioni che io e le mie compagne di viaggio vi suggeriremo di volta in volta. L’idea ci piace talmente tanto che abbiamo deciso di trasformare “SEDICI” in un percorso da condividere con tutti i lettori dei nostri blog. Vogliamo essere uno strumento utile da consultare tutte le volte che la domanda che vi passa per la testa è “questo con cosa lo abbino”? E allo stesso tempo vogliamo essere un contest giocoso e creativo per imparare qualcosa di più su quello sconfinato mondo di armonie e alchimie che c’è dietro al sapore del cibo.
Vi ho convinti? Appuntamento fisso ogni 16 del mese (è anche facile da ricordare) per ben 16 mesi.
Che volete mi piacciono le cifre tonde, i viaggi lunghi e in buona compagnia!!!

Riepilogo: questo mese affrontiamo la famiglia dei sapori agrumati, che, secondo l’autrice è composta da questi ingredienti: Arancia Pompelmo Lime Limone Zenzero e Cardamomo, i quali a loro volta possono combinarsi magnificamente con tantissimi altri ingredienti. Qui trovate il regolamento precisetti, di seguito invece le proposte delle mie compagne di avventura (visitate i loro blog per farvi un’idea migliore di questa grande e bizzarra famiglia degli agrumati), ma ricordate che se decidete di partecipare con uno degli abbinamenti del Limone dovete lasciare il vostro commento con link alla ricetta esclusivamente sotto questo post.

Alessandra di Ricette di Cultura  



Irene di Stuzzichevole



Alessandra di Menta & Salvia






N.B: la classificazione dell’autrice è soggettiva e senza pretese di esaustività: nella sua opera ci sono comunque dei grandi assenti: mandarino, bergamotto, kumquat...solo per limitarmi a questa famiglia degli agrumati. Ma già così il libro affronta 4.851 sapori, per cui abbiamo deciso di accontentarci anche noi e di seguirla e limitandoci esclusivamente agli ingredienti che lei ha preso in considerazione.

E ora, dopo aver ringraziato pubblicamente l'autore dei loghi, (che me ne fa passare tante, ma al momento buono realizza creature grafiche meravigliose), finalmente passiamo al mio protagonista di questa famiglia dei sapori Agrumati: il limone!


LIMONE
La scorza di limone contiene un composto, il citrale, subito riconoscibile per le note di limone. Sono presenti anche quelle di rosa, lavanda e pino, con una vaga caratteristica erbacea; e tutte vengono rilasciate quando si grattugia la scorza. Il succo ha sapore netto, fresco, dominato dall’acido citrico. Può essere usato con una certa moderazione per dare un tocco impercettibile in più a un piatto, o in notevole quantità per garantire un sapore più “limonoso”. É anche molto facile da adattare: in preparazioni dolci o salate, come aroma o ingrediente principale...su tutto, dall’aperitivo ai petit fours.

Abbinamenti proposti da Niki Seguit:
Limone & Acciughe, Limone & Agnello, Limone & Aneto, Limone & Anice, Limone & Arancia, Limone & Asparago, Limone & Basilico, Limone & Broccolo, Limone & Cappero, Limone & Carciofo Romanesco, Limone & Caviale, Limone & Cioccolato, Limone & Cioccolato Bianco, Limone & Cocco, Limone & Cumino, Limone & Foglie di coriandolo, Limone & Formaggio di capra, Limone & Frutti di mare, Limone & Ginepro, Limone & Lime, Limone & Mandorla, Limone & Manzo, Limone & Menta, Limone & Mirtillo, Limone & Oliva, Limone & Ostrica, Limone & Patata, Limone & Peperoncino piccante, Limone & Pesce affumicato, Limone & Pesce bianco, Limone & Pesce grasso, Limone & Pollo,Limone & Pomodoro, Limone & Prezzemolo, Limone & Rosa, Limone & Rosmarino, Limone & Semi di coriandolo, Limone & Timo, Limone & Uovo, Limone & Zafferano, Limone & Zenzero.

Bene, se uno di questi abbinamenti vi sconfinfera, vi incuriosisce e vi stuzzica interpretatelo come meglio credete, pubblicatelo sul vostro blog in un post dedicato entro le 23.49 del 14 marzo 2015 (ricetta + immagine del piatto finito + link a questo blog). Ricordatevi anche di esporre il banner del contest e di lasciare un commento con link alla vostra ricetta sotto questo post. Se volete esagerare chiedeteci di entrare nel gruppo Fb dedicato a SEDICI dove potrete condividere la vostra proposta e confrontarvi con gli altri partecipanti (ci sono ben due hashtag #sedici e #sedici_agrumati per condividere le ricette!).

E ora, passiamo alla mia ricetta. Tolti gli abbinamenti con il dolce (già ben collaudati nella mia cucina), quelli fuori stagione (basilico fresco e asparagi), e quelli più consueti (pollo e pesce), mi sono letta e riletta le coppie rimaste. Le ricette proposte sono sempre abbastanza vaghe, più simili a suggerimenti, a chiacchiere e a racconti, perché come vi ho spiegato questo non è un libro per imparare a cucinare, ma per imparare ed esplorare gli abbinamenti. Diciamo che è un libro intero di storie di matrimoni (più o meno felici) nel mondo del cibo... e tutte le volte che chiudevo il libro mi ritrovavo con l’immagine di una bella festa di nozze mediorientale: la tagine marocchina in cui l’agnello sposa con gioia i limoni confit. Suggestione bellissima, ma io avevo esaurito i miei limoni confit e non avevo il tempo di rifarne altri (maturano in un mese circa). Insomma, alla fin fine ho tenuto come base l’idea dell’abbinamento Agnello & Limone (pur interpretando Agnello in senso lato come carne ovina), e ho spostato il matrimonio un po’ più su, al centro del Mediterraneo. Gli arrosticini (caratteristici spiedini abruzzesi di pecora o agnello o castrato) sono fatti marinare in un intingolo di succo di limone e olio di oliva delicatamente aromatizzato con zafferano e peperone rosso macinato, e infine, passati nel pan grattato al timo, vengono cotti in forno.
Unione felice: il limone toglie un po’ di selvatico alla carne ovina, lo zafferano crea armonia, il peperone stuzzica e il pangrattato rende croccante. Bel matrimonio, coppia solida, alchimia riuscita!


"Arrosticini impanati al limone "

Ingredienti:
(piatto unico per due persone)
400 g di arrosticini di pecora (circa 20 arrosticini)*
40 g di succo di limone (pari a circa il succo di un limone spremuto)
30 g di olio extravergine di oliva
3 g di peperone rosso di Altino essiccato e frantumato
1 g di timo secco
1 bustina di zafferano (pari a 0,15 g )
la buccia di mezzo limone non trattato
sale e pepe nero macinati freschi secondo i gusti
pan grattato q.b

per accompagnare:
150 g di bulghur** + due cucchiai di olio extravergine per ripassarlo in padella

*gli arrosticini abruzzesi si trovano già fatti in comode vaschette nei migliori supermercati e macellerie della grande distribuzione. Se non li trovate sono comunque semplicissimi da preparare con polpa di agnello e un taglio piccolissimo (caratteristica essenziale per la riuscita di un ottimo arrosticino).
**Il bulghur o bulgur è un alimento tradizionale del medio oriente (probabilmente originario della Turchia). Spesso in italiano è indicato semplicemente come "grano spezzato". In realtà si tratta di un derivato del grano duro integrale germogliato e cotto al vapore, poi fatto essiccare e spezzettato in granella. 

Procedimento:
-in una ciotolina sbattere l’olio extravergine d’oliva con il succo di limone, la polvere di peperone rosso, lo zafferano un pizzico di sale e il pepe nero macinato fresco.
-Spennellare con cura gli arrosticini di pecora con questa marinatura rossa, e riporli in un contenitore copribile adatto al frigorifero (se ne avanza marinata rovesciarla direttamente sugli spiedini). Mettere il contenitore in frigorifero e fare riposare la carne per circa due ore.

- Nel frattempo preparare il bulghur. Portare a ebollizione una pentola con 1200 ml di acqua salata. Aggiungervi il bulghur e cuocerlo per circa 15 minuti trascorso questo tempo scolare il bulghur e tenerlo da parte.
-passate le due ore di riposo della carne mescolare in un piatto piano abbondante pangrattato e con il timo essiccato leggermente frantumato tra le mani. Rotolarvi delicatamenti un arrosticino per volta in modo che tutti e quattro i lati siano ben coperti di pan grattato.
-Man mano che si impanano gli arrosticini disporli su una placca da forno leggermente unta con olio di oliva. Salare e cospargere gli arrosticini con i riccioli di buccia di mezzo limone (usare un riga limoni).

-Infornare in forno caldo ben caldo (180°ventilato) per circa 15/20 minuti. Trascorsi i primi 10 estrarre però la teglia e girare velocemente gli spiedini e terminare la cottura. Ripassare in padella il bulghur con due cucchiai di olio e sgranarlo bene con una forchetta. Servire gli spiedini caldissimi appoggiati sul bulghur.



Caramella Gianduja


Quando andavo alle elementari verso Carnevale si faceva sempre il gioco di abbinare le città italiane alle loro maschere. Chissà se si fa ancora? Forse no, mi sembra più uno di quegli argomenti da servizio di Costume e Società dopo il tg di mezzogiorno su rai due. Comunque, dato che oggi è martedì grasso voglio presentarvi una nuova carnevalesca abitante della mia Isola dei dolci sperduti, ma prima vi racconto la storia di Gianduja, la maschera piemontese per eccellenza.

Gianduja ha una storia curiosa, legata alle travagliate vicende di due burattinai torinesi, Battista Sales e Gioacchino Bellone, che nel primo Ottocento vagano tra piazzette e teatrini piemontesi e liguri portando in scena due arguti burattini: Gironi, il marito, e Giacometta, la moglie. La coppia di maschere, di paese in paese, riscuote un grande successo. Ma la popolarità, la satira sottile, e il nome “Gironi” del burattino attirano presto molti guai. Le autorità vedono nel pupazzo una intollerabile presa in giro del potere politico: a Genova il piccolo Gironi ricordava il doge Gerolamo Durazzo, mentre a Torino il burattino in parrucca bianca sembra la caricatura del fratello di Napoleone, Gerolamo Bonaparte. I due burattinai scampano in modo rocambolesco alle accuse di lesa maestà, e riparano nell’astigiano dove attendono che le acque (e la politica) si calmino. Ospitati e nascosti in quel di Callianetto, tra le colline di Castell’Alfero, incappano per caso in un bizzarro personaggio del luogo, Gioan dla Doja, chiamato così per la sua abitudine di chiedere in ogni osteria una Doja di vino (dal nome dialettale del recipiente in terracotta da due litri). È tempo di cambiare il pericoloso nome del burattino, che d’ora in avanti si chiamerà Gianduja. Insieme al nome mutano anche le sue caratteristiche: la marionetta non reciterà più a soggetto, secondo l’estro e l’umore dei due burattinai. Gianduja sarà l’espressione del carattere del popolare piemontese: alquanto conservatore (bogianen, ovvero immobile), ma di ottimo umore, patriota e sempre fedele al dovere e alla parola data. Il nuovo Gianduja ha una faccia tonda e buona, guance rubiconde, segno evidente di buona mensa e di buoni vini, la parrucca col codino all'insù, il cappello a tricorno con coccarda tricolore, un giubbetto marrone orlato di rosso, il panciotto giallo, e i calzoni di fustagno verdi e corti fino al ginocchio con sotto le calzette rosse. Rinnovato nell’aspetto e nello spirito, il piccolo burattino e la sua furba compagna Giacometta, tornano a calcare le scene torinesi conoscendo così una fama straordinaria ancora viva e sentita ai giorni nostri. Allegro e godereccio Gianduja diventa sinonimo di divertimento e festa (la sua consacrazione definitiva avvenne nel 1868, quando  il Carnevale torinese gli dedicò ben cinque composizioni coreografiche, chiamate in suo onore “le Gianduieidi”).
Non è una caso che il suo nome nel mondo sia legato al vessillo dorato della cioccolateria piemontese nel mondo: i gianduiotti, cioccolatini strepitosi fatti di di cacao, nocciole “Tonde Gentili”, e zucchero (furono lanciati dalla Caffarel proprio durante il Carnevale del 1865). La maschera presta però il suo nome ( e il suo volto) anche a un altro dolce venduto in tutta la città di Torino nel periodo di Carnevale: la caramella gianduja.
Ecco appunto la nuova abitante della mia Isoletta. Famosissime nella città di Torino, ma praticamente sconosciute nel resto del Piemonte, queste caramelle erano fatte lavorando lo zucchero in recipienti di rame con essenze di frutta: lo sciroppo colorato così ottenuto veniva colato su tavoli di marmo freddo, e proprio a questo processo si doveva la forma caratteristica di grossa goccia trasparente. Una volta rassodate le caramelle venivano incartate a mano con grande cura. Se la loro origine è piuttosto misteriosa, sappiamo però che le prime tracce certe di questa produzione artigianale sono legate alla nascita della De Coster nel 1880, che ripropone il dolcetto confezionandolo nel particolare incarto esagonale (quasi una preziosa saponetta) colorato dall’effige del buon Gianduja. Le prime caramelle, inoltre, erano molto grandi: si trattava cioè di una caramella da spezzettare e condividere con gli amici durante le sfilate dei giorni di festa (dolcino social). Nel tempo la caramella è diventata più simile ad un lecca lecca, e oggi la si trova in due versioni da 5 e 8 cm di diametro (come quelle che ho fotografato con profusione di coriandoli pur senza avere bambini in casa!).
Meno note dei celebri gianduiotti, queste caramelle sono per tutti i torinesi l’emblema dei Carnevali del passato, hanno il profumo dei coriandoli, delle giostre in Piazza Vittorio, del corteo delle mascherine che lanciava leccornie sulla gente. Le caramelle gianduja sanno di frutta e caramello, e a dire la verità hanno anche il sapore zuccherato e un po’ appiccicoso della nostalgia... Come spesso accade, sono passate da delizia popolare a raffinatezza venduta a peso d’oro nei caffè e nelle pasticcerie del centro. Non allego la ricetta di questi croccanti dolciumi, perchè (a qualcuno parrà strano), ma non sono dotata di lastra di marmo da confettiere necessaria per la colatura, quindi evito di propinarvi una ricetta non colludata. Spero vi basti il mio racconto per liberare questa povera caramella dalla gabbia dei caffè storici: era un dolce da bambini lanciato per le strade a Carnevale da una maschera cicciotta con il tricorno...come può essere felice di invecchiare nei cassetti e nei ricordi di qualche madamina imbellettata?? Sull’Isola starà meglio...

Pancake con yogurt greco


«Oggi a merenda ho festeggiato il compleanno di Pippi Calzelunghe, e mi sono quasi rotta un dente perchè ho messo delle durissime palline d’argento sopra la tortina di Pancakes! »
«Ah, compie gli anni adesso? »
«No, a novembre, però non è una precisa sulle date! »
«É venuta lì a Torino a trovarti?»
«No, mia dolce metà, Pippi Calzelunghe vive in un libro, e ne esce ogni volta che voglio...basta aprire il libro e leggere... »

La dolce metà credeva che Pippi fosse il sopranome di una qualche mia amica squinternata. Comunque domani la dolce metà torna a casa: sostiene che se io sono arrivata a festeggiare il compleanno di una bambina inesistente con i capelli rossi il mio limite di sopportazione della solitudine è stato varcato da un pezzo.
L’ho sempre detto che Pippi è magica!

Pippi per me è un personaggio mitico, e lo sapete già perchè l’anno scorso ho anche fatto in suo onore delle fantastiche Cunegunde(commestibili e al contrario) per far tornare bambini gli adulti tristi! Poi ho letto di questo contest intitolato proprio “Benvenutia VillaVillaColle” e di questo bel libro di Elisabetta Tiveron dedicato a Pippi Calzelunghe piccola grande cuoca. 
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Immagine tratta dal web
Ho cercato il mio vecchissimo libro di Pippi, e me lo sono riletta un po’. Mi è rimasto impresso il capitolo del suo compleanno...bhe, diciamolo pure che mi ci sono riconosciuta: inviti scritti a mano, pieni di strafalcioni, casetta in ordine, fuoco scoppiettante, tavola imbandita di prelibatezze e cioccolata calda, camino scoppiettante, regalini per gli ospiti, storie di fantasmi e pirati, giochi assurdi (tipo “non toccare il pavimento”: cioè fare il giro della cucina senza mai mettere i piedi per terra) e infine esplorazione della misteriosa soffitta. Ho avuto la fortuna di crescere così: spensierata e fantasiosa quanto uno dei più bei personaggi della letteratura dell’infanzia...e quel pomeriggio invernale di giochi e di festa mi ha fatto chiedere che cosa mi sarei preparata io da piccola per il mio compleanno. Da bambina facevo qualche crostata, ma sempre sotto l’occhio vigile della mamma. La prime esplorazione in solitaria di una cucina senza adulti è avvenuta a casa di una compagna di scuola: per merenda io e lei da sole ci siamo preparate le crêpes! Impresa memorabile...che ancora oggi (dietro al fritto) regala a questo cibo il profumo dei ricordi, del coraggio e dell’entusiasmo!
Ieri però era il pancake day, che pullulavano in ogni dove ... così alla fine l’idea iniziale di una torta di  crêpessi è trasformata in una più soffice torretta di pancakes con mirtilli e yogurt (ugualmente comfort e a prova di bambino intraprendente)!

Buon compleanno Pippilotta,
dolce e grande amica della mia fantasia!

Buona Lettura: Astrid Lindgren, Pippi Calzelunghe,Capitolo 9: Pippi Festeggia il suo compleanno.


"Pancakes con yogurt greco"
 
Ingredienti:
230 g di farina 00 per dolci autolievitante
170 g di yogurt greco colato
160 g circa di latte intero
2 uova
35 g di zucchero Muscovado Altromercato
18 gr di olio (due cucchiai da minestra)
un cucchiaino di estratto naturale di vaniglia (tipo vahiné)

olio extravergine di oliva o olio di arachidi o burro per ungere la padella antiaderente

confettura extra di mirtilli, yogurt bianco e codette di zucchero colorate per decorare

Procedimento
-In una terrina mescolare la farina setacciata con lo zucchero e il pizzico di sale.
- In un’altra ciotola sbattere con una frusta l’olio, le uova, l’estratto di vaniglia e lo yogurt (si otterrà un composto simile ad una maionese).
-Unire gli ingredienti umidi a quelli asciutti, mescolare bene sino ad avere un composto omogeneo. Fondere un pezzettino di burro (o ungere con olio) una padella antiaderente, o l’apposita piastra per pancakes. Fare scaldare bene la superficie, poi rovesciarvi un mestolino di composto. Cuocere da un lato, poi girare il pancake dall’altro con l’aiuto di una spatolina . Il pancakes è tutta una questione di bolle, e di crosticina marroncina!!! Procedere così, ungendo bene la piastra per ogni pancakes. Servire immediatamente con confettura di mirtilli e yogurt bianco.

Con questa ricetta partecipo al contest di Coccola Time e Il fior di cappero:






Crema JPOP


In cinque anni di Università ho cambiato cinque camere in cinque collegi differenti. Tolto il primo anno dalle suore, in cui non potevo personalizzare neanche le pieghe del copriletto, ogni stanza nuova in cui mi trasferivo scatenava le mie più sfrenate manie di personalizzazione! Per un anno intero quell’anonima stanzetta doveva essere il mio mondo, doveva appartenermi tanto da parlare di me, tanto da esprimermi interamente al primo colpo d’occhio.
C’è stato l’anno della tinteggiatura folle e disperatissima, ricordato negli annali come quello delle pareti color biochetasi e degli occhiali da sole necessari per poter studiare senza abbagli (avevo scelto le tinte su catalogo cartaceo, ma sulle pareti “reagivano” curiosamente con il colore precedente: verde Mentadent+giallo limone = Biochetasi). Poi sono passata alla personalizzazione con fotografie, amici parenti e sconosciuti fotografati, incorniciati e appiccicati per rendere viva e vissuta l’angusta stanzetta. E così, grazie a bellimbusto muscoloso e unto appeso sulla scrivania, mi son bruciata una dozzina di possibili spasimati: scappavano a gambe levate credendo che il Mastro Lindo in questione fosse il mio fidanzato. Era mio fratello. Sig. E comunque non andava esibito! Nel passaggio tra la triennale e la specialistica, forse presa dal terrore della tesi, della laurea (pur se breve) e dell’idea del “momento significativo”, ho trasformato la cameretta in uno squinternato zibaldone tridimensionale. 4 metri x 4 tappezzati da fogli di ogni colore, poesie, articoli di giornale, ritagli alternati a gloriosi ritratti degli autori studiati al momento. Dato che studiavo principalmente l’Ottocento, immaginate il romantico, tremolante guazzabuglio di baffoni, damine, poesiole, foglietti e lettere d’amore. La poesia salva la vita, e io esternavo questa necessità vivendo circondata da scritti e dai miei personali numi tutelari! L’anno successivo l’arte è entrata prepotentemente nella mia vita, e nella mia stanza naturalmente! Ho costruito diversi Mobile suggestionata dai delicati equilibri delle sculture di Alexandre Calder...peccato che in contemporanea avessi anche la fissa “Nature”, per cui in realtà costruivo fragilissimi Mobile di foglie secche saccheggiando come una ladra gli aceri rossi del parcheggio della Coop.
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Mobile di Calder
Sussultavano perdendo pezzi ad ogni alito di vento, a ogni finestra aperta, e a ogni canzone dei Metallica del vicino di stanza. Calder era un ingegnere specializzato in arte cinetica. Io no. Ma questo non mi ha impedito di addobbare la mia cameretta come uno sgabuzzino della GAM (Galleria Arte Moderna) coordinando il tutto con una nota di rosso: sul soffitto ben tre Mobile (in continua manutenzione), e alle pareti una profusione di cartoni da me dipinti imitando con alterna fortuna croste arcobaleno e opere di arte contemporanea!
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Rodger Schultz  "JPOP"


La mia preferita, la meglio riuscita, la più fortunata è sempre stata la riproduzione di una marea di cerchiolini multicolore presi pari pari da una cartolina pubblicitaria. Non so nemmeno più cosa pubblicizzasse quel piccolo cartoncino, forse un bar con aperitivo. É andato perduto nei successivi traslochi. Ma quegli allegri cerchiolini sono stati la mia testiera del letto per un anno intero. Indimenticabili!

Ah, ad essere sincera ammiravo (e amo) profondamente anche l’arte del Quattrocento, ma tutto ciò che è figurativo e flamboyant su fondo oro mi pareva irriproducibile per i miei pennelli poco esperti! E poi ve la vedete bene una stanza di una universitaria in stile Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano??? No.
Quando ho iniziato a pensare a un’opera d’arte commestibile ho rispolverato l'idea dei cerchiolini, che a sua volta l’autore, tale Rodger Schultz (in arte RAS)* riprende da Pollock (la serie di opere si intitola appunto JPOP, ovvero Jackson Pollock on Prozak). Il celebre “drip painting” prende un prozac, diventando ipnotico, felice...hippie (e facilmente imitabile!).
Suppongo che il richiamo del titolo alla notissima pillolina antidepressiva, detta anche “droga degli artisti” per la sua capacità di stimolare la creatività, sia una metafora dell’arte stessa: l’arte nutre l’arte, l’arte droga l’arte, un artista esalta un altro artista, come mondi che si spalancano prepotenti su altri mondi (infinite possibility** scrive lui...anche se forse non ha mai preso in considerazione lo sgocciolamento dalla sua tela a un piatto di crema di barbabietole)!

*Sul sito personale dell'artista si legge: Rodger Schultz is a Professional Visual Fine Artist from Washington D.C. working under the pen name 'RAS.' At the age of 40, he left a prosperous career as a Graphic Designer, Illustrator and Iconographer and moved to the Fine Arts full-time. Armed with a singularly unique perspective and adept command over the visual languages, RAS. is quickly creating one of the most diverse and exciting portfolios in American Art.

*Ras scrive: "When I approach a canvas, I empty myself of all goals, notions, aims, ideals, preconceived yearning and prior learnings. Grand works should always start with infinite possibility, because they surely cannot end with it".


Crema JPOP”
Questa crema è semplicissima, ciò che la rende curiosa è la decorazione fantasiosa e la stratificazione dei sapori. Si tratta di una semplificazione estrema del  borsch, ridotto a una crema di patate e barbabietola. La complessità dei sapori è sulla superficie, nelle goccioline di yogurt bianco, curcuma e sale nero accanto all'insalatina valeriana. Bisogna aver voglia di dipingere o di giocare per fare questo piatto!
Ingredienti:
400 g di patate
270 g di barbabietole rosse fresche*
1 scalogno
brodo vegetale
burro
insalatina valeriana (songino) ben lavata e asciutta
yogurt bianco intero o panna acida
curcuma
sale nero di Cipro
sale olio extravergine di oliva e pepe nero macinato fresco

*io ho una copiosa scorta di barbabietole rosse dell'orto montanaro che stanno svernando in un secchio di sabbia...sostituitele tranquillamente con quelle precotte che si trovano sottovuoto al supermercato!

bastoncini per spiedini, pazienza e commensali amanti dell’arte

Procedimento:
-Mondare e lavare bene le patate e le barbabietole rosse. Tagliare tutto a dadini e metterle in una pentola capiente insieme allo scalogno pelato. Coprire di buon brodo vegetale e dall’inizio del bollore fare cuocere per circa 25 minuti (le patate devono iniziare a disfarsi). Controllare la cottura rimestando di tanto in tanto, ed eventualmente aggiungere un mestolo di brodo se si asciugasse troppo. Trascorso questo tempo spegnere il fuoco, aggiungere una noce di burro secondo i gusti e fare raffreddare un poco. Nel frattempo preparare i colori: cioè versare due cucchiaiate di yogurt una tazzina da caffè e colorare con la curcuma in polvere. Procedere aggiungendo un pizzico per volta di polvere gialla sino ad ottenere il colore desiderato. Fare lo stesso con il sale nero, grazie al quale si otterrà un grigio delizioso, e preparare anche una tazzina con yogurt bianco condito semplicemente con olio e sale. Con il mixer a immersione (oppure con un passa verdure) trasformare la zuppa in una morbida crema rossa. Non deve essere troppo liquida altrimenti non si riusciranno a disegnare i cerchiolini, ma bisogna fare attenzione perché la crema va servita ben calda, quindi prima di impiattarla va riscaldata. Per questo tipo di presentazione scegliere dei piatti molto grandi in cui la crema potrà allargarsi bene. Disporre un mestolo di crema rossa calda al centro di ogni piatto, decorare con le foglie mondate e ben asciutte di valeriana, poi disegnare i cerchiolini bagnando nello yogurt bianco o colorato la base degli spiedini di bambù (non dal lato appuntito). Lasceranno nella crema piccoli cerchiolini saporiti e freschi in contrasto con la dolcezza terrosa della crema. Completare con qualche goccia di olio extravergine di oliva (se usate un contagocce avrà un effetto migliore) e pochissimo pepe nero macinato fresco.

Con questa ricetta partecipo al contest di Panelibrienuvole "Ricette a regola d'arte".
 

Pesto Amaranta (dal libro Afrodita di Isabel Allende)


Buone Letture (con ricetta):

Afrodita
racconti, ricette e altri afrodisiaci
Isabel Allende (1977)

“Viaggio senza carta geografica attraverso le regioni della memoria sensuale, là dove i confini tra l’amore e l’appetito sono talmente labili da confondersi completamente.”


Ho letto questo libro da giovincella. Dopo circa 15 anni su ben 325 pagine di racconti, ricette e altri afrodisiaci mi era rimasta solo l’immagine di Isabel Allende intenta a nuotare con la grazia di un delfino in una piscina colma di riso al latte. Mi sono messa a rileggere Afrodita, per vedere se quel delfino esistesse davvero, o se invece non fosse uno dei miei frequenti “ricordi a fantasia” crasi impazzita di mille belle suggestioni. L’ho trovato subito. Nelle prime pagine l’autrice racconta del bizzarro sogno legato al suo dolce preferito e anche di come una volta, in un ristorante di Madrid, fosse riuscita a ordinare 4 porzioni di riso al latte, più una quinta per dessert, con la tenue speranza che il nostalgico dolce dell’ infanzia la aiutasse a sopportare l’angoscia della grave malattia della figlia. Il sogno del delfino non è un semplice ricordo, infatti poco oltre la Allende racconta: « Dopo la morte di mia figlia Paula, trascorsi tre anni a tentare di esorcizzare la tristezza con rituali inutili. Per me furono tre secoli, durante i quali avevo la sensazione che il mondo avesse perso i colori e che un grigio universale si stendesse inesorabile sulle cose. Non so ricostruire con precisione il momento in cui ricomparvero le prime pennellate di colore, ma quando ripresi a sognare di mangiare, capii che ero prossima alla fine del lungo tunnel del dolore, e che stavo per riemergere dall’altra parte, in piena luce, con una voglia incontenibile di tornare al cibo e ai giochi amorosi. E così, poco a poco, chilo a chilo e bacio a bacio, prese corpo questo progetto».
Ecco perchè io ricordavo solo il delfino, e la piscina di riso al latte...in questo sogno è racchiuso il senso del libro intero, che, badate bene, non vi insegnerà niente di nuovo sulla cucina, e forse ancor meno sui cibi afrodisiaci. Certo all’apparenza il libro fa il dovere per cui (forse) l’avete comprato, infatti l’autrice indaga pazientemente ogni sorta sostanza o attività sospetta di pungolare il desiderio amoroso... dai molluschi, alle erbe, passando per spezie, camicie di pizzo, luci soffuse e sali da bagno aromatici. Ma constatato il legame indissolubile tra cibo ed erotismo, o meglio ancora, constatato che sesso e appetito sono i grandi motori della storia («l’intero creato è un processo ininterrotto di digestione e fertilità; tutto si riduce a organismi che si divorano l’un l’altro, si riproducono, muoiono, fertilizzano la terra e rinascono trasformati. Sangue seme, sudore, cenere, lacrime e l’incurabile immaginazione poetica dell’umanità alla ricerca di un senso... »), questo libro è essenzialmente un piccante e ironico inno alla vita e agli unici due afrodisiaci che una scrittrice può contemplare: il racconto e l’amore. Vivere davvero, significa avere voglia di assaggiare il mondo, di gustarlo, e di sguazzarci dentro come in una piscina di riso al latte, per poi raccontarlo e su quelle parole aggrapparsi, e salvarsi come una novella, eterna Shahrazàd. Amare davvero significa non avere bisogno di alcun afrodisiaco («mi sento in dovere di confessare, a cuore aperto e prima che il lettore continui a perdere il suo tempo su queste pagine, che l’unico afrodisiaco davvero infallibile è l’amore. Niente può smorzare la passione che si accende tra due persone. In questo caso, le seccature dell’esistenza, il tempo che corre inesorabile, la goffaggine fisica o la penuria di occasioni non riusciranno a scoraggiare gli amanti, che troveranno sempre il modo di amarsi, perchè, per definizione, questo è il loro destino»). Insomma la ricetta è davvero semplice Amore + Buona cucina = Vita meravigliosa... le 300 pagine sull’argomento sono un di più (gustoso però).
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Table with Candle and Fruit Above, olio, Remedios Varo 1997.

“Pesto Amaranta”
Pesto è un nome generico...qui presentiamo una ricetta base, ma si possono aggiungere aromi e condimenti, o sostituirne alcuni a piacimento. Fare il pesto è un po’ come fare l’amore: bastano i rudimenti, tutto il resto è pura improvvisazione.

Ingredienti:
½ tazza di mandorle pelate e tritate finemente
2 cucchiai di uvetta bionda
½ tazza di brodo
1 spicchio di aglio schiacciato
1 cucchiaio di olio di semi (io olio extravergine di oliva)
3 cucchiai di parmigiano grattugiato
3 cucchiai di origano fresco tritato (1 cucchiaino secco)
½ cucchiaino di cumino
½ cucchiaino di paprica
sale

Procedimento:
Lascia a bagno l’uvetta nel brodo fino a farla ammorbidire. Aggiungi lo spicchio d’aglio fatto soffriggere nell’olio e scalda il tutto dopo aver unito le mandorle, l’origano, il cumino, la paprica e il sale. Prima di togliere dal fuoco, cospargi di formaggio grattugiato.
                                                      ***
In realtà io ho messo a bagno l’uvetta nel brodo per circa un’ora, poi ho soffritto lo spicchio di aglio in una padella antiaderente con un cucchiaio di olio di oliva. Ho aggiunto nella padella l’uvetta scolata e tritata grossolanamente, poi le mandorle tritate, l’origano (secco e solo un cucchiaino), la paprica e il cumino. Ho mescolato con un cucchiaio di legno aggiungendo mezzo mestolino di brodo caldo e un pizzico di sale. Ho fatto asciugare fino alla densità desiderata, infine un attimo prima di spegnere il fornello ho aggiunto il Parmigiano.

Profumata, intensa e vagamente esotica... perfetta in abbinamento a crostini di pane o carni bianche, forse meno adatta ad accompagnare gli amanti sulla soglia dell’alcova, perché non so quanto sia afrodisiaco avere le mani odorose di aglio e di spezie!

Merenda Reale

Cari Amici,
la mia piccola Isola dei dolci sperduti mi ha portato molta fortuna: la settimana scorsa sono stata invitata in anteprima alla “MerendaReale”: un’ adorabile “rievocazione storica” da pasticceria(tutta da mangiare)! Per mezza giornata mi è sembrato di vivere nella Torino di Alberto Viriglio, l’acuto scrittore di fine Ottocento che ha raccolto preziose memorie sulle tradizioni della città (anche quelle gastronomiche). Tra le tante abitudini descritte, Viriglio racconta di una Torino innamorata dei suoi dorati caffè e delle sue belle pasticcerie.
In questi locali la bevanda più richiesta, trasversale a tutte le classi sociali, dai Reali ai notabili, all’ultima lavandaia, era il delizioso «bicerin». Fino a mezzogiorno era consueto concedersi la popolarissima bevanda da 15 centesimi, che poteva essere pur-e-fort (se composta solo da latte e caffè), pur-e-barba (caffè e cioccolato), oppure un po' de tut (caffè, latte e cioccolato). In tutti e tre i casi il Bicerin era accompagnato dalla stissa (la goccia), ovvero un bicchierino di latte, caffè o cioccolato servito a parte con un piccolo sovrapprezzo per regolare a proprio gusto la miscela originale. Così come oggi chiediamo al bar “cappuccino e cornetto”, i torinesi del tempo ordinavano con il Bicerin un «Bagnato», ovvero un dolcetto che doveva finire inzuppato nel bicerin. La varietà di Bagnati era notevole, così come la fantasia nell’attribuire loro un nome, a seconda delle mode, e dei personaggi più in voga al momento. Accanto alla piccola pasticceria secca già molto apprezzata nel secolo precedete (canestrelli, torcetti, confortini, amaretti baci di dama...) nascono nuovi dolci che incuriosiscono e appassionano l’esigente pubblico. C’erano il chiffel (« panino lungo mezzo palmo, rattorto da spire su di sé e ripiegato a forma di mezza luna », erede diretto del croissant viennese sbarcato a Torino con l’arrivo di Maria Adelaide d’Austria), il bicciolano (biscotto vercellese dagli intensi sentori di spezie -garofano, coriandolo, noce moscata e macis-), la briòss («sorta di panetto di fior di farina, con finocchio o senza, ova e burro»), i piccoli parisien(biscottini fragili e leggeri, tanto che "assomigliare a un parigino"voleva dire indicare un «giovanotto attillato di tutto punto, un damerino»), i democratic (piccoli paninetti dolci), i foré (le ciambelle forate di mais/meliga), il Garibaldi (biscottoni di pasta frolla farcito di uvette e confettura di albicocche inventati in Inghilterra in onore dell’eroe dei due Mondi), da non confondere con il garibaldin (semplice fetta di pane imburrato). 

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Chiffel
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Bicciolani
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Garibaldi
Con il tempo questa straordinaria varietà, così come l’abitudine del bicerin mattutino è andata scomparendo, sorpassata e dimenticata a favore di nuove mode, e più moderne abitudini...fino ad oggi, perchè grazie ad un certosino lavoro di ricerca la Merenda Reale torna al suo antico splendore. Dal prossimo sabato, il 7 marzo, durante tutti i week end dell’anno, senza prenotazione, a qualunque ora del giorno, è possibile degustare questa antica golosità, sia in chiave settecentesca -caratterizzata da cioccolata e pasticceria mignon- sia in versione ottocentesca -con bicerin e i bagnati di dimensioni più importanti!-


La Merenda Reale del Settecento costa 10 euro a persona e comprende: cioccolata calda servita con una selezione di “bagnati” (tra paste savoiarde, canestrelli, torcetti, amaretti, pazientini, confortini, eporediesi al cacao, anisini, ventagli di sfoglia, meringhette, baci di dama, novaresi a seconda della disponibilità del locale); un piattino con torroncini e “diablottini” (cioccolatini fondenti).
É disponibile presso:
-Caffè Reale
-Caffetteria Castello di Rivoli
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Cri Cri
La Merenda Reale dell’Ottocento costa 12 euro a persona e comprende: bicerin e una selezione di “bagnati” (tra chifel, forè, bicciolano, brioss, parisien, democratic, biscotto Garibaldi e garibaldino a seconda della disponibilità del locale); un piattino con i nocciolini di Chivasso e piccole specialità al cioccolato come gianduiotti o cri cri.
É disponibile presso:
-Caffé Elena
-Gelateria Pepino
-Neuv Caval’d Brons
-Torrefazione Moderna

 Qui trovate maggiori informazioni:
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www.turismotorino.org/it/merendareale -residenzereali
Ogni tanto mi capita che qualcuno mi chieda indicazioni mangerecce su Torino. Questo post è per tutti i lettori golosi del mio blog: dopo aver gustato di persona i sapori di un altro secolo, e aver visto con quanta cura (filologica)* sono stati ricostruiti, condivido volentieri con voi questa paginetta di aneddoti, Storia e zucchero. E vi saluto con le parole di Alexandre Dumas, adorabile colto chiacchiericcio sulle dolcezze amene della città.

"Parmi les belles et bonnes choses remarquées à Tourin, je n'oublierai jamais le bicerin, sorte d'excellente boisson composée de café, de lait et de chocolat, qu'on sert dans toutes les cafès, à un prix relativement très bas." 

Alexandre Dumas Lettre à M.De Raude 1852.

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La storica Barbara Ronchi della Rocca che ha illustrato la Merenda Reale



*Dalla collaborazione tra storici e pasticceri è nato un disciplinare per le ricette dei bagnati a cui si rifanno tutti i locali aderenti all’iniziativa.

Limonata


Da queste parti prosegue lo studio sistematico e metodico del bellissimo libro di Niki Segnit, la “Grammatica dei sapori”. Confesso che senza Sedici (il contest organizzato con 5 amabili fanciulle) non l’avrei indagato così bene: sarebbe stato sbocconcellato di tanto in tanto sicuramente con molto meno entusiasmo. Invece la scusa degli abbinamenti fa in modo che l’ingrediente che ho scelto nella famiglia degli agrumati (ovvero il limone) sia una presenza costante, una fedele compagnia nella mia cucina. Una volta è per preparare la ricetta n.1, una volta per una fotografia, un’altra perché è frutta di stagione... ma alla fine i limoni hanno monopolizzato il cesto della frutta. Abbondano, giallissimi e profumati...e stuzzicano la mia fantasia. Questa di oggi è una fantasia sempliciotta e infantile. Ma non vi dico la soddisfazione!!!

E stavolta è una soddisfazione che va oltre a un sapore celestiale, a una foto luminosa, o l’emozione (stupida lo so) di avere proprio la carabattola giusta per questa ricetta. La dolce metà, che chiama me e le mie compagne di avventura“quelle degli abbinamenti pazzi”, è stato ritrovato davanti al pc con il porta succo vuoto in mano e la faccia colpevole da: «potevo finirla vero?». Sedici insegna tante cose, insegna anche a non dare niente per scontato in cucina, dietro all’abbinamento più semplice può esserci la porta di un piccolo e gioioso paradiso: la merenda delle quattro del pomeriggio!!! Sana e golosa. Come Limone&Menta.

Se volete giocare con noi, c'è tempo fino al 14 marzo per proporre una ricetta seguendo uno degli abbinamenti agrumati suggeriti da Niki Segnit. (ricordatevi di iscrivervi alla nostra pagina Fb).

N:B: Per il Limone qui trovate tutti gli abbinamenti consentiti.


“Limonata casalinga”

Con un rigalimoni ricavare la scorza di un grosso limone non trattato (evitate accuratamente l’albedine che è amarognola)! Mettere queste scorzette in un pentolino con 100 gr di zucchero semolato e 100 ml di acqua. , portare a ebollizione e fare cuocere mescolando delicatamente sino a quando lo zucchero non sarà completamente sciolto. Togliere dal fuoco e fare raffreddare lo sciroppo (giallo intenso), rimestando di tanto in tanto le scorze per fare loro rilasciare gli oli essenziali profumati.
Spremere il limone utilizzato per le scorze, insieme ad altri due limoni. Quando lo sciroppo sarà freddo (o appena tiepido) filtrarlo, (si avranno circa 150 ml di sciroppo) e unirlo al succo dei 3 limoni (circa 150 ml di succo). Mescolare e aggiungere acqua (naturale o frizzante) secondo i gusti. Servire mettendo uno o due rametti di menta (ben lavata) nel bicchiere, e se è estate ghiaccio.

Cracker per picnic




Per me picnic ha sempre voluto dire zaino, coperta, prato, ombra di un albero e formiche (ovviamente). Insomma, io, buona compagnia, buon cibo e natura. Poi una mia amica mi ha introdotta nel fantastico mondo dei "picnic cittadini", che sono dei pic nic in cui l’aspetto bucolico della natura circostante è sostituito da una zona aulica della città. Certo, questo tipo di picnic è completamente privo dell’atmosfera verdeggiante/rillassante, e per forza di cose bisogna rinunciare al pisolino post-prandiale rasoterra in condivisione con ogni insetto di sorta...ma è comunque un modo molto divertente e alternativo di intendere il pasto in città. Insomma se vedete due squinternati mangiare su una panchina con tovaglia a quadri, vettovaglie e cestino da picnic molto probabilmente siamo io & LaDolceMetà!

Luoghi consigliati per fare un picnic cittadino a Torino: 
 
Mezzogiorno-panchina di legno in piazza Castello davanti a Palazzo Reale (l’aura magica di Castore e Polluce allieterà il vostro pasto con vista su palazzo Madama), oppure panchina in pietra in piazza Vittorio (evitate giornata ventosa, ma magiare guardando la Gran Madre e la collina torinese è sempre molto bello). Se invece scegliete una verde panchina in Piazza Bodoni avrete gratuitamente anche l’accompagnamento musicale classico (nella piazza c’è il Conservatorio e un sacco di gioventù che strimpella a ogni ora del giorno).
Sera- piazza Carlo Alberto (di fronte alla Biblioteca Nazionale)...saranno le luci soffuse, le dimensioni intime della piazzetta, o la forza magnetica di migliaia di libri custoditi in un palazzo dal tetto verde di rame ossidato, ma questa secondo me è la piazzetta notturna più romantica della città. Dopo cena è d’obbligo una visita alla lapide all’angolo di via Carlo Alberto con l’iscrizione per il centenario della nascita di Nietzsche che tra 1888 e 1889 visse e scrisse (e uscì di senno) proprio in una stanza dell’immobile. Come recita la scritta qui "Conobbe la pienezza dello spirito che tenta l'ignoto, la volontà di dominio che suscita l'eroe". (Lo so sono romantica in modo un po’ particolare)!
Se Piazza Carlo Alberto fosse troppo affollata (specialmente d’estate) potete ovviare sulla vicinissima Piazza Carignano. Non invidiate le persone che vanno a cena al Cambio...voi avrete la stessa vista sulle onde sinuose del Palazzo che ha ospitato il Primo Parlamento italiano (e infatti è oggi la sede del Museo del Risorgimento). Per il cibo impegnatevi voi per essere all’altezza...
                                                          ***
Ovviamente a Torino c’è anche un ampio ventaglio di parchi, parchetti e aiuole in cui è delizioso mangiare, ma la “pausa pranzo alberata” è un’altra storia e un altro post! Oggi, quindi, croccantezze da cesto per picnic cittadino... lo spalmabile d’accompagnamento è rimandato ai prossimi giorni, chè altrimenti il papiro si allunga troppo.

P.S:non mi sento moralmente responsabile per questi consigli, nel caso esistesse una ordinanza comunale che vieta “la smandibolazione compulsiva in posizione seduta su una panchina con in mano un bicchiere di limonata.” Tra le taaante doti mi manca quella dell’Azzeccagarbugli...voi comunque siate civili, e ça va sans dire lasciate pulita la vostra panchina e questa meravigliosa città!

P.P.S: grazie a Giulia che con un suo post ha ispirato le sfoglie di ceci, e grazie a Valeria, maga di erbe e spezie con calligrafia e sorriso da fata!
               

"Cracker ai semi oleosi con senape e calendula"

Ingredienti:
100 g di farina 00
80 g di fioretto di mais
25 g di semi oleosi misti (io ho usato semi di girasole e semi di zucca)
25 gr di olio di arachidi
15 g di olio di oliva
10 g di senape di Dijon (circa un cucchiaino colmo )
un cucchiaino colmo di petali di fiori di calendula secchi (li trovate erboristeria)
un pizzico di sale

Procedimento:
Accendere il forno e portarlo a 180°. Setacciare le farine in una ciotola. Unire i semi, i petali di Calendula e il pizzico di sale. Mescolare bene gli ingredienti secchi con una forchetta, poi al centro del composto aggiungere il cucchiaino di senape e versare a filo gli oli. Impastare rapidamente con la forchetta (eventualmente se l’impasto risultasse troppo asciutto aggiungere pochissima acqua fredda). Con il mattarello stendere l’impasto in una sfoglia sottile (5 mm al massimo) e ricavarne dei biscotti con un taglia pasta o un bicchiere. Disporre su una teglia foderata di carta da forno e cuocere a 180° per circa 15 minuti.

"Sfoglie di ceci, semi di papavero e malva"
 
Ingredienti:
100 g di farina di ceci
100 g di farina 00
30 g di olio extravergine di oliva
80 ml di acqua fredda
1 o 2 cucchiaini di semi di papavero
1 cucchiaino di petali di malva blu (li trovate erboristeria)
un pizzico di sale
pepe nero macinato fresco

(considerare anche olio e sale per spennellare la superficie delle sfoglie)

Procedimento:
In una ciotola setacciare le due farine, unire i semi di papavero (qui potete abbondare secondo i gusti), i petali di malva, un pizzico di sale e uno di pepe nero. Mescolare gli ingredienti secchi, poi con una forchetta cominciare a impastare aggiungendo l’olio a filo e l’acqua necessaria per ottenere un impasto della consistenza della pasta fatta in casa. Porre la palla di pasta a riposare avvolta nella pellicola per alimenti per circa un’ora. Trascorso questo tempo accendere il forno e portarlo a 180°, poi dividere a metà l’impasto e porlo tra due fogli di carta da forno spolverati di farina. Con un mattarello stendere una sfoglia sottilissima, rimuovere delicatamente il foglio superiore, e trasferire quello inferiore con l’impasto steso su una teglia da forno. Con un coltello incidere a losanghe la superficie dell’impasto (non è necessario separare le sfoglie: si divideranno facilmente una volta cotte). Spennellare la superficie dell’impasto con una salamoia fatta di acqua e olio extravergine in pari quantità (emulsionare i liquidi e aggiungere un pizzico di sale). Cuocere le sfoglie per circa 10 minuti o comunque fino alla doratura.





Pitta con labna, noci e miele


Cari Amici,
questo è un post di grandi notizie! Per prima cosa vi dico che l’idea di esplorare insieme “la Grammatica dei Sapori” di Niki Segnit è piaciuta davvero tanto. In poco tempo si è creata una piccola comunità di affiatati alchimisti pronti a cercare mensilmente nelle proprie cucine la pietra filosofale dei sapori! Infatti, siamo orgogliose di annunciare che tra le tante ricette partecipanti per la famiglia degli Agrumati, si aggiudicano pari merito la coccarda di alchimista del mese
Elisa Di Rienzo del blog "Il fior di Cappero" con le Madeleine limone e cioccolato (abbinamento Limone&Cioccolato) e Valentine del blog "Experimental Cook" con i Tagliolini Soba con pollo all'arancia e broccoli (abbinamento Arancia&Zenzero). In questi piatti io e le mie 5 compagne di ventura abbiamo riconosciuto lo spirito di #Sedici, il gusto per la sperimentazione, la voglia di imparare, giocare e condividere il proprio sapere. Complimenti di cuore per queste due originalissime interpretazioni agrumate.

E dopo gli squilli di tromba e di gloria, torniamo alla nostra “Grammatica”. Questo mese #Sedici gioca con la grande Famiglia dei Caseari. Dato che dietro a questo bel progetto siamo sei foodblogger, mentre gli ingredienti considerati da Niki Segnit per questa famiglia sono soltanto cinque, io e Alessandra diMenta&Salvia ci dividiamo il mondo del Formaggio fresco. Questo vuol dire che se scegliete di partecipare al contest con uno degli abbinamenti del Formaggio fresco potete lasciare un commento sia a questo post che su Menta&Salvia
La famiglia dei Caseari si divide così (visitate i blog delle mie compagne di ventura per conoscere tutti gli abbinamenti e curiosare le nostre interpretazioni):

Formaggio di capra
Formaggio con crosta lavata
Formaggio erborinato 
Formaggio stagionato
Formaggio fresco
Menta&Salvia

Ora qualche info tecnica:
-si gioca dal 16 marzo al 12 aprile 2015.
-qui trovate il regolamento completo di #Sedici e qui la pagina Fb a cui iscriversi.
-ricordatevi di specificare con chiarezza l’abbinamento che intendete interpretare con la vostra ricetta.
-si può partecipare con UNA sola ricetta appositamente creata e fotografata per #Sedici e solo con uno degli abbinamenti della “Grammatica” (sappiamo che ve ne vengono in mente molti altri, ma, per quanto -parziale e soggettiva- noi seguiamo come una Bibbia la classificazione di questo libro).
-questi sono gli abbinamenti di Niki Segnit per il Formaggio Fresco:
Formaggio fresco & Acciuga; Formaggio fresco & Aglio; Formaggio fresco & Avocado; Formaggio fresco & Basilico; Formaggio fresco & Cannella; Formaggio fresco & Cappero; Formaggio fresco & Caviale; Formaggio fresco &F ico; Formaggio fresco & Fragola; Formaggio fresco & Funghi; Formaggio fresco & Mela; Formaggio fresco & Melanzana; Formaggio fresco & Peperone; Formaggio fresco & Pesce affumicato; Formaggio fresco & Pomodoro; Formaggio fresco & Ribes Nero; Formaggio fresco & Sedano; Formaggio fresco & Tartufo; Formaggio fresco & Uva.

N.B: noi siamo abituati a identificare come Formaggio Fresco tutti quei formaggi a pasta molle (di consistenza cremosa o tenera) la cui cagliata non è sottoposta né a cottura, né a stagionatura (al massimo a una maturazione inferiore ai 30 giorni). I formaggi indicati da Niki Segnit vanno però dalla mozzarella, al cottage cheese, alla ricotta, al Brie al Brocciu, al Camembert al Brillant-Savarin. Ricordatevi che Niki Segnit classifica i sapori! Infatti, al di là di latte, pasta, crosta e stagionatura (i criteri di classificazione dei formaggi in Italia) l’autrice mette in questa sezione tutti i formaggi accomunati da un intenso sapore di latte fresco.

Passiamo adesso alla mia ricetta, che interpreta l’abbinamento “Formaggio Fresco&Noce”. Come coppia di sapori è un grande classico, ma Niki Segnit propone di abbinare la noce al Labna, il formaggio fresco mediorientale a base di yogurt. Volevo provarlo da una vita, e ho seguito gli ottimi consigli del libro (sostituendo però il pane nero con una fragrante Pitta siriana). 

Visto che sulle due ricette che compongono il piatto si possono trovare una quantità immensa di versioni, io ho preferito rivolgermi a due pietre miliari: Claudia Roden e Paul Holliwood. Anche loro, come Formaggio Fresco &Noce efficaci e affidabili. 

 

“Pitta con Labna, noci e miele”

Labna -formaggio di yogurt-
(dal libro “La cucina del Medio Oriente e del Nord Africa” di Claudia Roden)

Salare lo Yogurt intero (1 cucchiaino di sale integrale ogni 5 dl di yogurt), e rovesciarlo poi in un setaccio, o in un colino rivestito con con un telo fitto e sottile di mussola inumidita (io ho usato un pezzo di una vecchia tovaglia di lino). Appoggiare sul colino un peso (tipo un piatto o una ciotola) e lasciare sgocciolare per una notte intera a temperatura ambiente (in estate in frigorifero). In alternativa si possono legare le quattro cocche del telo appendendo il fagottino a un cucchiaio di legno sopra una scodella o sopra il lavandino. Il siero dello yogurt sgocciolerà via lasciando una massa bianca morbida e soffice (praticamente identica ai più noti formaggi spalmabili, ma senza la “farina di carrube” come addensante). 
 

Pitta
(dal libro “La magia del Forno” di Paul Hollywood)

Ingredienti:
250 g di farina bianca 0
5 g di sale
7 g di lievito di birra secco
1,6 dl di acqua fredda
2 cucchiai di olio extravegine di oliva
semolino per spolverizzare
Procedimento:
1. Versare la farina setacciata in una ciotola e aggiungere il sale da un lato e il lievito dall’altro.. Unire i ¾ dell’acqua e l’olio, e mescolare con la punta delle dita; proseguire versando l’acqua rimasta poco per volta fino a quando non si sarà inglobata tutta la farina dai bordi della terrina. Impastare sino ad avere una pasta un po’ grossolana.
2. Ungere leggermente il piano di lavoro, trasferirvi la pasta e cominciare a lavorarla. Proseguire per 5/10 minuti sino ad avere un impasto morbido su cui comincia a formarsi una sottile pellicina.
3. Quando la pasta sarà morbida metterla in una ciotola capiente unta, coprirla con un telo e lasciarla lievitare per circa 2/3 ore (fino al raddoppio del volume). Nel frattempo portare il forno a 220° e mettervi una teglia a scaldare.
4. Spolverizzare la spianatoia con semolino e trasferire l’impasto lievitato. Fare uscire l’aria dalla pasta piegandola ripetutamente fino a che non sarà morbida; poi dividerla in 6/8 pezzi: formare delle palline coprendole con un telo mentre si modellano le altre! Stendere le palline con un mattarello ottenendo degli ovali irregolari spessi circa 3 mm. (stendere solo quelle sufficienti a riempire la teglia).
5. Estrarre la teglia calda dal forno, spolverizzarla di semolino e appoggiarvi le pitta. Farle cuocere per 5/10 minuti, sfornandole appena prima che si coloriscano. Proseguire così sino all’esaurimento della pasta, lasciando riposare le pitta cotte sotto un telo pulito, in modo che il vapore le mantenga morbide.


Spalmare il Labna fresco sulle Pitta, cospargere con qualche gheriglio di noce, gocce di miele di acacia e una spolverata di pepe nero.



Mousse di prosciutto


L’anno nuovo parte sempre zeppo di buoni propositi...poi arrivo a Marzo e mi rendo conto che non sono ancora riuscita a metterli in pratica tutti! Uno di questi era quello di portare avanti un le paginette che negli anni ho creato sul blog. La sezione School of Cook langue da tempo...non perchè nella mia cucina manchino le ricette base, anzi sono le più usate...però al momento di metterle sul blog mi chiedo: ma a chi vuoi che interessi? È una banalità! Così alla fine tralascio. Invece lo spirito di School of Cook era proprio dire l’ovvio... ma ben detto. Riparto, quindi da un grande classico: la mousse di prosciutto. Totalmente demodé, terribilmente anni Ottanta, in equilibrio precario tra lo Spuntì della merenda all’oratorio e i canapé da buffet freddo (su vassoi a specchio tra arabeschi di maionese naturalmente).
 Ebbene, come altri mondi, anche quello della gastronomia è in balia di mode, tendenze, e manie. Ma una cosa ho capito benissimo: anche in cucina, come nell’alta moda, tutto torna. Alti e bassi, evoluzioni, involuzioni, rivisitazioni, luci della ribalta e oblio. Non si può mai prevedere la parabola più o meno felice che toccherò a una ricetta, un ingrediente, o un abbinamento! Di sicuro però, prima o poi tornerà! Magari mutando d’aspetto, e di nome, ma fatto il cambio d’abito e di carta d'identità, prima o poi tornerà!
L’altra settimana sono andata a fare un aperitivo chiccoso in centro, e cosa mi trovo sotto il naso accanto al bicchierino? Un pallido tramezzino farcito con mousse di prosciutto. Ed era anche buono! Me misera, io che mi son dimenticata di una tale semplice delizia!
Replicato immediatamente il giorno successivo, con un fondino (super economico) del macellaio! Ricetta perfetta per piniccare in salotto, sul terrazzo o su una panchina in questo primo giorno di primavera.

N.B:se volete un vero revival di gioventù fate la mousse di prosciutto, mettetela in un tupperware arancione cosparsa con dischetti di olive, compratevi un pacchetto di salatissimi Tuc e una lattina di LemonSoda, mettete tutto nel vostro zaino Invicta Jolly... e partite direttamente per gli anni Ottanta. Tornerete a questi tempi moderni più felici che mai!

Se invece volete rivedere la tavola della zia per bene armatevi di naftalina, chignon alto (anche lui di ritorno), e cospargete vassoi inox effetto specchio con di pan carrè a triangolo spalmati di mousse di prosciutto, e guarniti con ovette di quaglia sode (o uova mimosa) e punte di asparagi al vapore!
Per qualcosa di un po’ più fresco optate per  verdure croccanti (tipo sedano, carote, indivia) oppure, abbinate la mousse a questi insoliti cracker!

"Mousse di Prosciutto"

Ingredienti:
150 g di prosciutto cotto
60 g di panna
25 g di burro a temperatura ambiente
pepe nero macinato fresco

Procedimento:
Per questa ricetta il burro deve essere a temperatura ambiente, mentre è meglio che panna e prosciutto siano freddi di frigo. Dato che è una soffice delizia con 3 ingredienti è ovvio che il sapore del prosciutto è determinante: più è di qualità meglio è per il sapore della mousse!
Tagliare a dadini grossolani il prosciutto. Metterlo nel robot da cucina, procedere a impulsi, sino ad ottenere una crema. Passare la crema in un setaccio di acciaio inox (aiutarsi con un Tarocco, che è quella bella spatolina di plastica flessibile)! In una ciotola montare la panna. Mescolare la crema di prosciutto con il burro ammorbidito, e con la panna montata. Aggiungere un pizzico di pepe nero secondo i gusti e finire di amalgamare il composto con grande delicatezza. Servire frescacon pane, focaccia grissini, craker e verdure!

p.s: c’è chi mette un cucchiaio di Brandy sulla crema di prosciutto prima di aggiungere burro e panna, ma sinceramente non sono mai convinta del fondo alcoolico che lascia sul sapore della mousse, quindi No Alcool e W la mousse astemia (adatta anche ai bimbi)!

Tomini al Verde o Elettrici



Come sapete ogni occasione è buona per usare questo blog e i piatti che qui pubblico per andare a “spasso nel tempo”. Girovagando tra libri, ricette, tradizioni e ingredienti mi perdo nei mille rivoli di una “Storia parallela” affascinante e ricca tanto quanto quella più ufficiale e studiata. Questa volta il pretesto è stato Sedici, il contest che io e altre 5 foodblogger abbiamo organizzato per esplorare un libro fantastico: la grammatica dei Sapori di Niki Segnit. Siccome questo mese Sedici è dedicato ai sapori Caseari, famiglia vastissima e cangiante, mi è venuta voglia di sapere se l’uomo ha sempre adorato alla follia questo alimento così come noi occidentali facciamo oggi.
La risposta è semplice: no! Per tutta l’età antica, e ancora durante il medioevo, pur se apprezzato e consumato, il formaggio era l’espressione alimentare di un mondo rurale estremamente povero. Il formaggio, con la sua connotazione rustica, pastorale e contadina, era il simbolo di una marginalità da cui i più abbienti prendevano volentieri le distanze (è indicativo il fatto che nel De re coquinaria di Apicio, l’unico ricettario di epoca romana giunto sino a noi, il formaggio compare solo ed esclusivamente come ingrediente per produrre vivande più elaborate, ma mai da solo). A questo aspetto di marginalità sociale e geografica, si sommava una forte diffidenza che la scienza medica nutriva verso il misterioso processo di fermentazione e coagulazione, che si traduceva nel consiglio di consumare il formaggio con parsimonia. Insomma, il formaggio arriva al medioevo con una pessima reputazione: cibo da poveri e per di più dannoso! Nella stessa epoca però si impone l’obbligo, per l’intera comunità cristiana, di rispettare precise norme alimentari scandite dal calendario liturgico: se la carne non si può mangiare (nei giorni di vigilia e in quelli di astinenza infrasettimanale), bisogna cercare un sostituto...e i latticini -con pesce e uova- sono lì a portata di mano (così noi ancora oggi, con un bel paradosso nutrizionale, chiamiamo “di magro” tutti i cibi che non contengono carne ma formaggio). Nonostante questa mezza, necessaria, nobilitazione religiosa la cattiva reputazione del formaggio è dura a morire.
Bisogna aspettare il 1477, quando tale Pantaleone da Confienza, medico e professore dell’università di Torino, pubblica una originalissima Summa lacticinorum*, ovvero, il primo trattato europeo specificatamente dedicato ai latticini. Il dottissimo Pantaleone, “protomedico”, cioè capo dei medici di casa Savoia, aveva viaggiato per tutta l’Europa al seguito della nobile famiglia; in questo modo aveva potuto tastare con mano (e assaggiare) l’ampia tipologia (diversitas) che caratterizza il candido mondo dei latticini. La Summa di Pantaleone è particolarmente importante per due motivi: il primo è che Pantaleone regala al formaggio un’immagine totalmente positiva. Con grande abilità retorica smentisce seccamente tutta letteratura scientifica a lui precedente: semplicemente lui distingue, sostenendo che per ogni persona c’è un formaggio più adatto, alcuni vanno bene per i vecchi, altri per i giovani, e ogni temperamento (collerico, flemmatico, melanconico e sanguigno) vuole il suo. Infine, altra grande novità: Pantaleone scrive «ho visto con i miei occhi re, duchi, marchesi, baroni, soldati, nobili mercanti, plebei di entrambi i sessi nutrirsi volentieri di formaggio – e pertanto evidente che tutti lo approvano ». E qui si rovescia definitivamente il pregiudizio secolare che allontanava il formaggio dalla mensa dei nobili. Dalla Summa in avanti il gusto vincerà su ogni credenza, e i poveri come i ricchi, avranno la gustosa libertà di amare e consumare questo incredibile derivato del latte.
Sabato scrivevo sulle mode alimentari e sulla loro forza... oggi torno a rifletterci passando dalla porta della Storia: pensate che nei secoli successivi il formaggio sarà talmente apprezzato dalla famiglia reale sabauda da rendere necessaria a Corte la presenza di uno specialista assunto esclusivamente per fabbricare i tomini per la tavola del re. 

 
La ricetta di oggi è infatti dedicata a questo piccolo formaggio fresco ancora oggi molto amato in tutto Piemonte, benchè un po’ trascurato, vuoi per la sua semplicità, vuoi per la quantità di titani inarrivabili che affollano i mondo caseario piemontese. Siccome per Sedici mi sono occupata dei formaggi freschi, ne ho cercato uno che rappresentasse un po’ tutta questa ricca regione così importante nella storia del formaggio (e dalla pianura ai monti ogni località, con lievi differenze ha il suo tomino fresco). La ricetta, anche questa volta, è estremamente semplice, ma riesce a trasformare un pallido e lattoso tomino in una merenda sinoira** di carattere. E non è poco. 
 
*Un esemplare della Summa Lacticinorum stampato nel 1477 dal tipografo Jean Favre è alla Biblioteca Nazionale di Torino. L’incunabolo è stato esposto al pubblico lo scorso anno (2014) in occasione di una bella mostra che la Biblioteca ha dedicato al 540°anniversario dell’introduzione della stampa a Torino. Per chi volesse sbirciare la Summa con più agilità è in commercio una bella edizione curata da Slow Food.
**La merenda sinoira è la versione popolare e piemontese del brunch domenicale, non è però l'unione tra la colazione e il pranzo di chi ha fatto qualcosa il sabato sera (e ha dormito fino a tardi il mattino dopo), ma la commistione tra merenda pomeridiana e la cena di chi ha fatto qualcosa la domenica mattina, e alle 16.30 del pomeriggio si ritrova con una fame da lupo. Solitamente una merenda sinoira si risolve senza tanti fronzoli: pane, salame, e volendo qualche acciughina al verde, tomini. E naturalmente vino rosso, robusto!

"Tomini al Verde (o Elettrici)"

Ingredienti:
6 tomini freschi
un bel ciuffo di prezzemolo
3 spicchi di aglio
½ peperoncino piccante
aceto di vino rosso
olio extravergine di oliva
pepe nero macinato fresco
sale
(eventualmente un cucchiaio di salsa al pomodoro)

Procedimento:
Tomino Elettrico è il nome popolare e relativamente recente di una variante piccante dei più classici Tomini al Verde. Per questi ultimi si trita finemente il prezzemolo insieme all’aglio, poi si mette il composto in una ciotola e vi si aggiungono olio sale e pepe sino ad avere una salsa con cui ricoprire i tomini spruzzati d’aceto. Nella variante “elettrica” insieme a prezzemolo e aglio si trita anche un bel pezzo di peperoncino fresco (ed eventualmente -specie in estate- si amalgama il tutto con un cucchiaio di salsa pomodoro). In entrambi i casi poi si unge una terrina, o un vaso si vetro, si mettono due cucchiai di salsa sul fondo, si sistemano i tomini e li si spruzza di aceto di vino rosso. Coperti con il resto della salsa si lasciano riposare in frigorifero per almeno 48 ore prima di consumarli.

Riso al latte


I sogni mi suggestionano. Anche se sono di un’altra persona: come vi ho già detto Isabel Allende racconta in Afrodita di un dolce sogno in cui nuotava, con la grazia di un delfino, in una piscina di riso al latte. Da lì in poi, ogni volta che sono entrata al supermercato ho visto dei famosi barattolini blu, tipo yogurt, pieni di riso al latte. Io l’ho sempre considerato come una sana merendina delle quattro adatta ai bambini. Non ho mai pensato che fosse davvero un dolce! Però vuoi per le fantasie oniriche della Allende, vuoi per questi barattolini blu che continuano a inciamparmi sul naso, vuoi perché, dopo attenta e minuziosa ricerca mi sono resa conto che ogni tradizione gastronomica del mondo ha il suo riso al latte, ecco, alla fine mi sono convinta: vi presento la mia versione.
Fin’ora non l’ho mai considerato degno di apparire su questi schermi. Poi, tirando le somme mi sono ricreduta: è voluttuoso quanto un qualsiasi dessert al cucchiaio (anche se per me non è proprio erotico come vorrebbe l’Allende), è coccoloso come un abbraccio, è facilissimo (e disponibile ad accogliere mille varianti), ed è sanissimo!Candido Comfort Food da giorno di pioggia!


“Riso al Latte 1”
Ingredienti:
80 g di riso per minestre (Vialone Nano)
80 g di zucchero
200 ml di latte intero
100 ml di panna
25 g di maizena
i semi di mezza bacca di vaniglia
una grattata di scorza di limone bio

300 ml di acqua fredda per la cottura del riso


Procedimento:
-Sciacquare il riso sotto l’acqua fredda, poi metterlo in una pentola con 300 ml di acqua fredda e portare dolcemente a cottura sino al completo assorbimento del liquido (7 minuti circa). Togliere dal fuoco e aggiungere sul riso 150 ml di latte, panna zucchero, i semi di mezza bacca di vaniglia (volendo incidere la bacca e metterla direttamente nel riso) e la grattata di scorza di limone secondo i gusti. Mescolare bene, e porre nuovamente sul fuoco dolcissimo mescolando spesso. Nel frattempo mescolare stemperare il una ciotolina i 25 g di maizena setacciata con i restanti 50 ml di latte intero. Fare molta attenzione é non si formino grumi, eventualmente passare in un colino fittissimo per eliminarli. Unire delicatamente la crema di latte e maizena al composto di riso. Amalgamare bene con un cucchiaio di legno e proseguire la cottura sino a raggiungere la densità desiderata (considerare che raffreddandosi solidificherà ulteriormente, quindi fermatevi un po’ prima della densità desiderata)!

N.B:tenete dell’altro latte a disposizione, perchè la varietà di riso che usate influisce tantissimo sulla quantità di liquidi assorbiti... se lo vedete troppo denso e ancora poco cotto aggiungete del latte e proseguite la cottura sempre mescolando. Il riso al latte è eccellente con una spolverata di cannella macinata fresca, come nella tradizione greca del “risogalo”.

“Riso al Latte 2”
Quando c’è in casa qualche mezza lattina di latte condensato da smaltire lo uso al posto della panna diminuendo la dose di zucchero. Il procedimento è identico cambiano solo le dosi degli ingredienti.

Ingredienti:
80 g di riso per minestre (Vialone Nano)
30 g di zucchero
200 ml di latte intero
100 ml di latte condensato
25 g di maizena
i semi di mezza bacca di vaniglia
una grattata di scorza di limone bio

300 ml di acqua fredda per la cottura del riso





Flammkuchen o Tarte flambée à l’alsacienne


Oggi ricetta di sostanza. Non che l’apparenza sia proprio raccapricciante, ma non ho avuto il tempo di mettermi a fotografare con luce naturale e grazia questa Flammkuchen (o tarte Flambé che dir si voglia). Non mi sono impegnata per rendere esteticamente appetibile questa spianata alsaziana di pasta di pane coperta di panna acida, formaggio fresco, cipolla e pancetta: i miei sani principi da foodblogger con lo scatto facile sono stati intorpiditi dal profumino straordinario di questa delizia. Con immensa gioia della dolce metà (in cui gli stessi profumini scatenano istinti da Unno all’assalto) la macchina fotografica è stata tolta dal tavolo. Abbiamo mangiato con gusto la nostra Flammkuchen. Punto. É scomparsa in un battito di ciglia appena uscita dal forno. Fidatevi... non so che altro dire!!

La Flammkuchenè una specialità alsaziana: un tempo questo sottilissimo impasto di pasta di pane veniva cotto sulla bocca dei forni prima dell’infornata settimanale di pane. La fiamma viva della legna prima di diventare brace, lambiva queste “spianate” cuocendole velocissimamente. Diciamo che era una sorta di termometro commestibile per rendersi conto dell’effettiva temperatura del forno. Io l’ho scoperta a Parigi, perchè un’ amica mi ha portato a mangiare in un ristorante tipico esclusivamente dedicato alla Flammkuchen: per una ventina di euro c’è il menù “a volontà”... Flammkuchen a raffica con sopra ogni sorta di condimento. Ho preso questo menù ogni sacrosanta volta che sono andata lì a mangiare, per poi concludere immancabilmente (a fine serata e con la pancia in mano), che la Flammkuchen migliore è quella classica. Finalmente ho trovato al supermercato la panna acida...così mi sono lanciata!!! Senza varianti bizzarre, e haimè con la macchina fotografica in vacanza!


"Flammkuchen"
 (o Tarte flambée à l’alsacienne)

Tanto per fare la precisetti ho consultato un bel po’ di tomi e anche di siti francesi alla ricerca della ricetta perfetta. In ogni dove ho trovato semplicemente l’indicazione di “pasta del pane” o “pasta del pane con 2 cucchiai di olio” stesa sottilissima, e poi farcita. Alla fine, invece di avventurarmi in terre (e pastadipane) straniere, ho deciso di usare uno dei miei impasti evergreen come base.

Ingredienti per la base: (per 1000 g di pasta)
320 ml acqua
30 ml di olio extravergine di oliva
3 g di sale
640 g di farina bianca 0
4 g di lievito secco attivo

Ingredienti per la farcitura:
150 ml di panna acida oppure di crème fraîche*
150 g di formaggio fresco spalmabile
200 g circa di pancetta (una fetta spessa che poi taglierete voi)
1 o 2 cipolle bianche
pepe nero macinato fresco

*Nel caso non le trovaste consiglio l’home made: 250 ml di panna, 100 g di yogurt e un cucchiaio di succo di limone, mescolare il tutto e lasciare al riposo in frigo per una notte.

Procedimento:
1.In una terrina capiente setacciare la farina bianca. Porre da un lato della montagnola il sale e dall’altro il lievito disidratato. Fare un buco al cento e rovesciarvi un poco di acqua e l’olio. Cominciare a impastare rapidamente con una forchetta aggiungendo l’acqua man mano. Quando si ha una pasta grossolana trasferirla sulla spianatoia infarinata e terminare di impastare. Porre il composto in una ciotola coperta con un canovaccio pulito in un luogo riparato a lievitare per almeno un’ora.
2.Nel frattempo preparare la farcitura mescolando in una ciotola la panna acida, il formaggio fresco. Se si vogliono evitare problemi di digestione delle cipolle tagliarle a fette sottili e sbianchirle rapidamente (2 minuti) in acqua bollente. In questo modo anche il sapore sarà meno accentuato. Tagliare la fettona di pancetta a stricioline (questo blog non concepisce l’uso delle vaschette di pancetta a dadini & simili!). Accendere il forno portandolo alla temperatura massima consentita (tra 200° e 220°)
3.Quando la pasta del pane sarà ben lievitata rovesciarla sulla spianatoia, dividerla in due o tre parti ( un pezzo più piccolo, a seconda teglie  che usate). Preparare un foglio di carta da forno adatto alla teglia che userete per la cottura (io ne ho usate 2 da 40x40 e una tonda da 28 cm di diametro,). Disporre al centro del foglio uno dei pezzi di pasta e stenderlo sottilissimo con il mattarello. Ripetere l’operazione sino a esaurire la pasta restante. Sistemare le sfoglie nelle teglie e farcire distribuendo uno strato sottile di panna e formaggio sulla superficie. Distribuire poi uniformemente anche cipolla e pancetta. Spolverare con pepe nero macinato fresco. Cuocere in forno caldissimo per circa 15 minuti. Servire calda con una birra bionda.

 In tema di formaggi freschi e bianche delizie del mondo caseario vi ricordo il contest Sedici:

 



Birille di carne con droghe e menta


Il tema del contest era “La macchia nel piatto”, e io ho pensato che l’unico modo per trasformare la macchia mediterranea in qualcosa di commestibile era rivolgermi ai suoi profumi straordinari. Così per una volta non sono partita da un ingrediente, da un colore, da una fotografia, da una carabattola, da una ricetta, da una stoffa, da un ricordo, o da una richiesta. Ho sgomberato la mente e il tavolo della cucina da libri, estetica, spesa, stagionalità, idee, post-it...e ho lavorato di naso. Ho cercato un piatto della tradizione piemontese che avesse lo stesso profumo di quei pendii in riva al mare che nella mia testa associo alla macchia mediterranea.
Questa mia idea di "macchia"è fatta di odori caldi, come la terra arsa dal sole (cannella, chiodi di garofano), di aromi resinosi degli arbusti bassi e sempreverdi (alloro, ginepro, salvia, pepe nero), di olivi contorti, e di profumo di erbe verdi calpestate misto alla brezza salmastra del mattino (menta, prezzemolo, noce moscata, cipolla, aceto). Tra tutti i piatti della cucina piemontese questo mi è sempre sembrato un piatto di “riviera”... un po’ come se queste polpettine estive dell’alta Langa respirassero i venti profumati della vicina Liguria. Le Birille sono polpettine minuscole che un tempo venivano cotte in una padella di ferro e poi carpionate con aceto, salvia e cipolla. Nelle Langhe costituivano la cena dei mietitori: conservate al fresco in un recipiente di coccio in cantina erano un saporito pasto pronto di ritorno dai campi. Oggi qualche osteria le serve ancora come gustoso aperitivo, ed effettivamente ci si può fermare alle birille fumanti, o fare la ricetta completa di carpionatura -magari con le palline avanzate- per il giorno successivo.


“Birille di carne con droghe e menta”

Ingredienti
400 g di polpa di vitello macinata
1 uovo
20 g di Parmigiano
4 g di foglie di menta fresca
2 g di foglie di prezzemolo
2 spicchi di aglio
6 bacche di ginepro
sale,
un pizzico delle seguenti droghe in polvere (possibilmente macinate fresche): pepe nero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano.
farina bianca necessaria a infarinare le polpettine
olio extravergine di oliva

per la carpionatura:
4/5 foglie di salvia e di alloro, grani di pepe nero, uno scalogno e aceto di mele

Procedimento:
-Su un tagliere tritare finemente le foglie di menta e il prezzemolo. A parte pulire gli spicchi di aglio e schiacciare con il manico di un coltello le bacche di ginepro.
-Preparare la carpionatura leggera: soffiggere rapidamente in una padella antiaderente uno scalogno tagliato a fettine sottilissime, versare sullo scalogno mezzo bicchiere di aceto di mele e due di acqua, unire i grani di pepe nero -4 o 5- le foglie di salvia, l' alloro e fare ridurre un poco sul fuoco (10 minuti circa). Poi farlo raffreddare bene.
-Mettere la carne macinata in una terrina, con una forchetta unire l’uovo intero, il Parmigiano, il sale fino, e un pizzico di polvere di queste droghe profumate: pepe nero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano (siate parsimoniosi, mi raccomando!). In ultimo aggiungere il trito di menta e prezzemolo, e mescolare bene sino ad avere un composto omogeneo.
-Creare le birille arrotondando queste piccole polpette tra i palmi delle mani infarinati: queste polpettine devono essere appena più grandi di una nocciola (per aiutarsi usare come misura un cucchiaino da caffè). Man mano che si procede nella formazione delle polpette disporle su un vassoio infarinato.
-Una volta terminata la produzione di palline, spolverarle bene tutte con un velo di farina. Poi scaldare un filo di olio extravergine di olio d’oliva in una padella antiaderente piuttosto capiente (32 cm di diametro). Unire all’olio gli spicchi d’aglio puliti e privati dell’anima, e le bacche di ginepro appena schiacciate. Quado l’olio sarà ben caldo soffriggervi le birille, avendo cura di muovere spesso la padella in modo che le palline possano cuocere bene su tutti i lati. Data la dimensione ridotta delle palline di carne, anche questa semi-frittura sarà molto rapida. 
-A questo punto si possono servire le polpettine fumanti con stuzzicadenti per un buon aperitivo, oppure conservarle "in carpione" per i giorni successivi. 
-Una volta cotte sistemare le birille in una terrina di coccio adatta a essere portata in tavola. Eventualmente aspergere appena le birille con la carpionatura leggera (unirvi comunque gli aromi che hanno cotto nella miscela di acqua e aceto, cioè lo scalogno, il pepe, la salvia e l’alloro).
-Fare riposare 24 ore in frigorifero (coperte). E servire a temperatura ambiente come aperitivo.


Con questa ricetta partecipo al Contest"La Macchia del Piatto"organizzato dall' Aifb in collaborazione con La strada del vino e dell'olio e il Comune di Castagneto Carducci:

Venere cantonese



Ormai il 16 del mese è un giorno cerchiato sull’agenda. Non prendo impegni particolari, appuntamenti o visite. É un giorno speciale, interamente (o quasi) dedicato a “la Grammatica dei Sapori” di Niki Segnit e al gruppo di affiatate sperimentatrici che esplorano a suon di ricette il complesso mondo dei sapori. La famiglia dei Caseari si è rivelata particolarmente vasta e complessa: le ricette partecipanti spaziavano con grazia e velleità sorprendenti in questo fluttuante universo 2.0. Ciò nonostante io e le mie cinque compagne di ventura siamo riuscite a decidere a chi attribuire il titolo di vincitore del mese. 

Si aggiudicano l’ambita coccarda bianco latte Giovanna (del blog Il profumo dei tarocchi) con la ricetta "Gnocchi di patate al roquefort con pere vino dolce e streusel croccante" e Simona (del blog Lovecooking) con la ricetta "Panna cotta al gorgonzola con composta di mirtilli all'aceto balsamico". Insomma ci piacciono i sapori intensi, le ricette audaci e le Alchimiste coraggiose!Bravissime!

E dopo la gloria torniamo alla grammatica: questo mese #Sedici gioca con la famiglia di sapori “Erbe e verde”. Ebbene sì, anche nella realtà virtuale sentiamo la primavera. Io ho scelto i Piselli, verdissimi, freschi e primaverili! Quindi se volete giocare con uno dei seguenti abbinamenti ricordatevi di lasciare un commento a questo post.


Gli abbinamenti di Niki Segnit per i piselli sono:
Piselli&Agnello; Piselli&Anice; Piselli&Asparago; Piselli&Bacon; Piselli&Carciofo romanesco; Piselli&Cipolla; Piselli&FormaggioStagionato; Piselli&Frutti di mare; Piselli&Maiale; Piselli&Manzo; Piselli&Menta; Piselli&Pastinaca; Piselli&Patate; Piselli&PesceAffumicato; Piselli&PesceBianco; Piselli&PesceGrasso; Piselli&Pollo; Piselli&ProsciuttoCrudo; Piselli&Rafano; Piselli&Rosmarino; Piselli&Uovo.

La famiglia“Erbe e Verde” si divide così: 
(visitate i blog delle mie compagne di ventura per conoscere tutti gli abbinamenti e curiosare le nostre interpretazioni):

Zafferano
"Fusilli zafferano&limone, zucchini e crudo"
Aneto
"Bignè all'aneto con crema di salmone affumicato"
Prezzemolo
"Insalata di orzo, merluzzo e carciofi profumata al prezzemolo"
Avocado
"Tiramisù avocado e caffè"
Piselli
Betulla
"Venere cantonese"
Peperoncino piccante
"Tortilla chips home made con salsa piccante" 


Ancora qualche info tecnica:
-si gioca dal 16 aprile al 13 maggio 2015.
-qui trovate il regolamento completo di #Sedicie qui la pagina Fb a cui iscriversi.
-ricordatevi di specificare con chiarezza l’abbinamento che intendete interpretare con la vostra ricetta.
-si può partecipare con UNA sola ricetta appositamente creata e fotografata per #Sedici e solo con uno degli abbinamenti della “Grammatica” (sappiamo che ve ne vengono in mente molti altri, ma, per quanto -parziale e soggettiva- noi seguiamo come una Bibbia la classificazione di questo libro).
- Per completezza specifichiamo che secondo l’autrice la famiglia “Erbe e Verde” comprende anche Anice, Cetriolo, Aneto, Foglie di Coriandolo e Peperone. Noi però abbiamo deciso di giocare solo con gli ingredienti che trovate abbinati ad uno dei nostri blog (cioè Zafferano, Aneto, Prezzemolo, Avocado, Piselli e Peperoncino).


E ora finalmente la mia ricettina!
Approdati alla terza famiglia di Sedici ho deciso che fosse arrivato il momento giusto per testare davvero la “Grammatica dei Sapori”. Quindi questo mese la mia proposta per la famiglia dei sapori “Erbe&Verde” non è l’interpretazione personale di un abbinamento suggerito dall’autrice, ma la realizzazione vera e propria di una sua ricetta. Come sapete la Segnit è piuttosto vaga e generale, anche perchè in 15 righe dedicate all’abbinamento “Piselli&Uova”concentra aneddoti, ricetta ed estasi culinarie. Io ho seguito pari pari le sue indicazioni per quanto riguarda il procedimento, di mio c’è la traduzione di “pugnetti e manciate” in grammi e dosi adatte ad un primo piatto per due persone, l’idea di sostituire un generico riso orientale con quello Venere e l’olio d’oliva. Naturalmente ho scelto questa ricetta perchè mi sono innamorata di un ingrediente etereo e romantico, come il wok hay (“respiro del wok”), ovvero la combinazione di sapore, calore e fumo che gli chef cantonesi ottengono dalla loro fida padella di ferro, che riesce a conferire un gusto particolare a tutto ciò che vi si cuoce dentro. Purtroppo, per me, che lavo il wok tra una cottura e l’altra, è un ingrediente inarrivabile!!! Ma garantisco che anche senza wok hayquesto riso è gustosissimo! Parola di Betulla!

p.s:sono consapevole che il riso cantonese è un’altra cosa, anzi che probabilmente in Cina il riso alla cantonese come lo intendiamo qui in Italia proprio non esiste! Il riso Venere usato qui al posto di un generico "riso orientale"è un antico riso cinese, riservato un tempo alla famiglia dell'Imperatore e a una stretta cerchia della nobiltà, che oggi è coltivato con ottimi risultati anche nella Pianura Padana. Ciò non toglie che un cinese vero non userebbe mai come condimento olio extravergine di oliva (eventualmente di sesamo o di arachidi). Detto questo io e LaDolceMetà abbiamo iniziato a chiamare questo piatto la “Venere Cantonese” e tale è rimasto. Concedetemi licenza poetica e “stupidera” (con buona pace delle indicizzazioni di Google!).

"Venere Cantonese"

Ingredienti:
125 g di riso Venere
100 g di piselli freschi
60 g bacon
2 uova
1 cucchiaio di salsa di soia leggera (a basso contenuto di sale)
1 scalogno
olio extravergine di oliva

Procedimento:
-Cuocere il riso Venere in acqua bollente per circa 16 minuti. Scolare e fare raffreddare bene.
-In una padellina antiadererente scaldare un dito d’acqua. Raggiunta l’ebollizione aggiungere i pisellini e fare cuocere fino all’assorbimento quasi completo del liquido (7/8 minuti circa).
-Tritare finemente le fettine di bacon affumicato e lo scalogno, quindi soffriggerle nel wok con un paio di cucchiai di olio d’oliva. Aggiungere il riso venere bollito e mescolare bene per dividere i chicchi. Unire i piselli scottati e quando il tutto sarà saporito e ben caldo, bagnare con un composto di uova e salsa di soia precedentemente sbattute in una ciotolina. Fare rapprendere le uova, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. Servire caldissimo in ciotoline.

Fusilli integrali con Lüvertin e curcuma

Non è la prima volta che mi metto a raccontarvi di quanto la nomenclatura popolare del regno vegetale sia scarsamente globalizzata. I nomi comuni delle piante seguono criteri fantasiosi e bizzarri, oppure seguono l’ironia, o più spesso la spicciola osservazione. Così cambiano di regione in regione, o meglio, di paese in paese e di testa in testa...e capita ad esempio che un’ erba spontanea primaverile sia chiamata in tre modi diversi addirittura nella stessa famiglia (dialetto piemontese: Lüvertin; dialetto milanese: Lovertís; dialetto abruzzese: Tenne -in senso lato di tenero germoglio).
Insomma per fortuna c’è il latino, lingua universale dei tempi andati e lingua designata dal buon Linneo per dare un “nome e cognome” certo ad ogni specie di passaggio su questa terra (sempre nome generico maiuscolo ed epiteto minuscolo mi raccomando!). Al momento mi viene anche da dire che per fortuna c’è internet, e con esso la possibilità di scovare testi interessantissimi e gratuiti, come questo adorabile Dizionario botanico che per ogni piantina indica il nome latino, quello italiano, piemontese, francese e inglese. Da qui apprendo che l’ Humulus lupulus, ovvero luppolo selvatico, che tenta le mie papille vagabonde ogni primavera, è chiamato in ben 15 modi diversi solo in Piemonte!

Il luppolo che ho usato in questo piatto è l’equivalente vegetale di certi bambini pestiferi...finchè sono piccoli tutti ridono divertiti del loro carattere selvaggio, bizzoso, e delle loro marachelle...ma quando crescono, gli stessi aspetti non domati sono praticamente insopportabili! Dico questo perchè il luppolo selvatico è veramente delizioso in germoglio, ma è detestabile quando, crescendo, si attorciglia su pali elettrici, reti, muriccioli e staccionate. Sono sicura anche tra di voi c’è qualche anima pia che ha dovuto bonificare un giardino abbandonato di recente...Guardate bene quelle foglioline tra i fusilli. Le riconoscete? Sembrano innocue, ma possono diventare gigantesche, lianose, urticanti e sospinte da una una forza straordinaria (come quella del fagiolo magico della fiaba, perché in primavera il luppolo cresce dai 15 ai 30 cm al giorno). Sarete ancora più contenti di mangiarle! Vero?


“Fusilli integrali con Lüvertin e curcuma”


Ingredienti per due persone:

300 ml di brodo vegetale
80 g di luppolo selvatico (pulito)
2 uova
olio extravergine di oliva

*Ingredienti del commercio equo e solidale.

Procedimento:
-Lavare con cura e mondare il luppolo selvatico, poi pesatene circa 80 g. In una padella tipo wok scaldare i 300 ml di brodo vegetale, aggiungere il luppolo e procedere nella cottura sino al quasi completo assorbimento del liquido (6/7 minuti). Nel frattempo con una forchetta sbattere le uova in una ciotolina stemperandovi mezzo cucchiaino di curcuma in polvere. Quando il luppolo sarà quasi completamente asciutto versare nella padella le uova e rimestare velocemente con un forchettone di legno. Fare rapprendere le uova e spegnere il fuoco.
-Cuocere i fusilli integrali per sette minuti in acqua bollente salata. Scolarli e rovesciare i fusilli nel wok sul condimento di uova e luppolo. Ripassare rapidamente la pasta su fuoco vivace, impiattare e condire con un filo di olio extravergine di oliva a crudo. Servire subito.

Focaccia di farro al tarassaco e Karkadé freddo al limone


Ci sono state primavere in cui per onorare degnamente la bella stagione, il sole e l’esistenza intera mi facevo prendere dalla malsana voglia di organizzare dei“déjeuner sur l’herbe” con amici. Mi alzavo la mattina, e mandavo un sms standard a tutta la rubrica del telefono con coordinate spazio temporali. In 10 minuti partiva un evento di “aggregazione spontanea sperduto su un prato montanaro” meglio detto “picnic della domenica”. Mezza giornata di tempo per organizzarsi, una cartina disegnata a mano e un posto speciale in cui trovarsi, sempre diverso, sempre bellissimo.
Naturalmente non mi sfiorava il pensiero che gli invitati potessero non avere nulla in comune l’uno con l’altro (ero convinta che se la gente si sopporta cordialmente ai pranzi di matrimonio perché non può conoscersi/amarsi/odiarsi un po’ anche ad un mio picnic?). L’occupazione abusiva dei prati altrui era dribblata selezionando con cura le “aree verdi attrezzate” oppure scegliendo i campi senza padrone (e in tempo di fienagione si riparava nel cortile di casa). Non mi preoccupavo neppure del cibo...perchè tanto qualcosa arriva sempre...e anzi di solito si avanza. Un po’ più difficile era avere bevande per tutti. Ah, sì perchè alla fine questa storia dei “picnic della domenica” piaceva un sacco, sono arrivata a contare fino a sessanta svitati (esclusi bimbi & cani) intenti a mangiucchiare improbabili insalate di fagioli&cipolle guardando con me il sole tramontare sui monti! Senza intrattenimento, senza Whatsapp, -quasi sempre- senza acqua corrente, senza pensare che non si sarebbe potuto dire alle forze dell’ordine che il wc per tutta quella gente erano gli alberi a “200 mt in tutte le direzioni”. Non lo racconto per nostalgia o perchè sento il fiato del tempo sul collo. Sono ricordi bellissimi, ma sinceramente adesso avrei il cruccio per l’amica celiaca, il patema per quella che sviene se sfiora le fragole, non dormirei al pensiero della coppia che ha il bambino allergico all’erba e al pelo dei cani, sarei preoccupata dell’incontro di Tizio che odia Caio, e mi farei carico di riempire la pancia di tutti assecondando i gusti di ognuno, penserei che accendere fuochi nei boschi (anche chiamandoli romanticamente falò)è proibito dalla forestale e, in ultimo, avrei il sacro terrore delle foto assurde che verrebbero condivise in internet.
La mia mamma dice sempre “zucca e melone alla loro stagione”. Così questi miei pazzi e affollati “déjeuner” sono andati avanti per un bel po'di tempo. Poi si cambia, si cresce (magari nel frattempo il fantasma di tale Gustave Le Bonn ci fa prendere coscienza dell'imprevedibile "Psicologia delle folle"). E non ultimo si apprezza il fatto di essere stata un po’ scriteriata in tempi in cui l’aggettivo “sociale” era riservato alla cantina del paese, o alla gita della pro loco.
La fissa del picnic continua a spuntare ogni primavera (e qui poteteleggere la declinazione cittadina)... ma, come per il cibo ha subito un’evoluzione verso la qualità. Conscia che il “Dio vede e provvede” non include per forza anche i picnic, ho deciso di occuparmi (e preoccuparmi) del benessere di pochi selezionati amici per volta. Gestisco meglio le cose! ;-)
Buon picnic amici....

p.s:come dicevo, devo a queste allegre domeniche un notevole bagaglio di “arte dell’arrangiarsi in cucina”. Sapete quei libri stupidini tipo ricette con tre ingredienti? Basta abitare in un paesello sperduto sui monti, basta voler invitare taante persone la domenica, quando é tutto chiuso, e si prova questa splendida ebbrezza di raspare la dispensa e creare!!! Questo karkadè/limonataè nato così, come alternativa a tutte le bibite con bollicine che possono venirvi in mente (i fiori di ibisco erano sempre disponibili tra le mie tisane per una bella infusione). Ai déjeuner c’erano solo alcolici, o acqua di fonte...la via di mezzo era solo una. Lui, rosso rubino, dissetante e fresco: il Karkadè al limone! Amatissimo e ricordato con affetto a distanza di anni, oggi -tanto per stare in tema bucolico e "vita dei campi"- ci ho abbinato una focaccina di farro con sopra la cicoria selvatica, ovvero il tarassaco.

Tre piccole note sugli ingredienti:
-Farina di farro monococco (Triticum monococcum): è uno di quegli alimenti antichissimi (è la prima specie di frumento coltivata 9000/10000 anni fa) lentamente soppiantato da frumenti più produttivi e di facile trebbiatura. Di recente è stato riscoperto grazie alle sue proprietà nutrizionali, e al suo sapore ricco, anche se generalmente si trova in versione integrale. La sua farina ha caratteristici pigmenti che, anche in piccola quantità, conferiscono agli impasti e ai prodotti da forno una lieve colorazione gialla.
-Foglie di Tarassaco (Taraxacum officinale): comunissima pianticella dei prati dai mille nomi (tra cui cicoria selvatica, dente di leone, girasole -in Piemonte-). La si trova praticamente in ogni dove, e in primavera le foglioline tenere sono una vera delizia amarognola. É anche facile da riconoscere, ma mi sembra d’obbligo raccomandare di non farsi prendere dalla frenesia dell’alimurgia. Raccogliere le erbe spontanee è bellissimo... non tutto quel che cresce nei prati però è commestibile (anzi la natura produce veleni che neanche l’uomo è riuscito ad eguagliare). Quindi raccogliete solo ed esclusivamente piante riconoscibili, e in luoghi non inquinati!
-Karkadè (Hibiscus sabdariffa):facile, per me esiste da sempre solo il Karkadè in fiori diAltromercato. E non solo per il principio etico e per i valori che stanno dietro questi fiori di ibisco. É anche una questione di gusto. Vi assicuro che il karkadè delle bustine non ha neanche lontanamente il sapore di questi fiori interi essicati al sole del Kenia. Tanto che molte persone mi hanno detto di non riconoscerlo! Infine, l’ibisco è una pianta straordinaria, che necessita di poca acqua e poche cure. Non essendo soggetta a malattie e parassiti, può essere coltivata senza l’impiego di fitofarmaci o fertilizzanti chimici, che danneggiano i contadini e il suolo.
“Focaccia di farro al tarassaco”
Ingredienti:
-per la pasta:
300 g di farina 0
200 g di farina di grano duro
140 g di farina di farro monococco (non integrale)
320 ml di acqua
30 ml di olio extravergine di oliva
3 g di sale fino
4 g di lievito di birra disidratato
1 cucchiaino di miele

per la farcitura:
200 g di foglie tenere di tarassaco
40 g di olive taggiasche denocciolate
40 g di filetti d’acciuga sott’olio
mezzo bicchiere di brodo vegetale
un pizzico di peperoncino o paprica forte o peperone rosso di Altino
2 spicchi d’aglio
sale, olio extravergine qb

procedimento:
1.In una terrina capiente setacciare le farina e mescolarle. Porre da un lato della montagnola il sale e dall’altro il lievito disidratato. Fare un buco al cento e rovesciarvi un poco di acqua e l’olio. Cominciare a impastare rapidamente con una forchetta aggiungendo l’acqua man mano. Quando si ha una pasta grossolana trasferirla sulla spianatoia infarinata e terminare di impastare. Porre il composto in una ciotola coperta con un canovaccio pulito in un luogo riparato a lievitare per almeno un’ora.
2.Nel frattempo preparare la farcitura: sbollentare rapidamente le foglie di tarassaco (4 minuti circa), e raffreddarle in acqua e ghiaccio. Su un tagliere tritare finemente le acciughine e le olive taggiasche, poi metterle da parte. Tritare grossolanamente anche le foglie di tarassaco, poi pelare due spicchi d’aglio e scaldare un filo di olio extravergine di oliva in una padella antiaderente. Fare una specie di soffritto con gli spicchi d’aglio e il trito di acciughe e olive. Spadellare rapidamente mescolando con un forchettone di legno. Sfumare con mezzo bicchiere di brodo vegetale caldo e fare consumare tutto il liquido. Infine condire con sale e peperoncino secondo i gusti e fare raffreddare. Accendere il forno portandolo alla temperatura massima consentita (tra 200° e 220°)
3.Quando la pasta sarà ben lievitata rovesciarla sulla spianatoia, dividerla in due o tre parti (a seconda teglie che usate). Preparare un foglio di carta da forno adatto alla teglia che userete per la cottura (io ne ho usate 2 da 40x40). Disporre al centro del foglio uno dei pezzi di pasta e stenderlo sottilissimo con il mattarello e aiutandosi con le mani. Sistemare le sfoglie nelle teglie e farcire distribuendo con una forchetta uno strato sottile di tarassaco ripassato. Condire con un filo di olio e una spolverata di peperoncino. Cuocere in forno caldissimo per circa 15 minuti.

“Karkadé freddo al limone”
Ingredienti:
-1 limone bio
-100 g zucchero (volendo anche di canna, ma scurirà molto la bevanda)
-700 ml di acqua
-8 g di fiori di Karkadé Altromercato

Procedimento:
-Con un rigalimoni ricavare la scorza di un grosso limone non trattato (evitate accuratamente l’albedine amarognola)! Mettere queste scorzette in un pentolino con 100 gr di zucchero semolato e 100 ml di acqua , portare a ebollizione e fare cuocere mescolando delicatamente sino a quando lo zucchero non sarà completamente sciolto. Togliere dal fuoco e fare raffreddare lo sciroppo (giallo intenso), rimestando di tanto in tanto le scorze per fare loro rilasciare gli oli essenziali profumati.
-Mel frattempo preparere il Karkadè portando a ebollizione 600 ml di acqua. Aggiungere i fiori di ibisco, mescolare bene, spegnere il fornello e coprire il pentolino con un coperchio. Lasciare in infusione circa 15 minuti. Poi fare filtrare il liquido con un colino separandolo dai fiori.
-Filtrare anche lo sciroppo di limoni (si avranno circa 150 ml di sciroppo) e unirlo al Karkadè. I due liquidi possono anche essere tiepidi. Fare raffreddare a temperatura ambiente poi mettere in una bottiglia e fare riposare qualche ora in frigorifero prima di consumarlo. Servire fresco, eventualmente con ghiaccio, e una fetta di limone!

Con questa ricetta partecipo alla raccolta di StagioniAMO "Facciamo un picnic"! (salato: cicoria selvatica; bevanda/ dolce: limone).






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